Sangue di Giuda, Graziano Gala
(Minimum Fax, 2021)
Tutto inizia con un televisore rubato, o meglio, arrubbato: un vecchio Mivar di nessun valore che per Giuda, sessantenne dimenticato dai suoi concittadini nel paese immaginario di Merulana, è tutto. Le voci provenienti dall’apparecchio intimidiscono infatti il fantasma del padre di Giuda, uomo violento e dissoluto che continua ad essere una presenza inquietante nella vita del protagonista. Proprio dal furto del televisore prendono avvio le vicende di Sangue di Giuda, romanzo d’esordio di Graziano Gala, da poco pubblicato per Minimum Fax: un libro scritto in una lingua particolarissima, un incontro di dialetti meridionali (napoletano, salentino, siciliano ecc…) che racchiude dentro di sé tutta la sostanza della lingua orale.
Giuda è un reietto in un paese corrotto in mano al potente di turno, Mammoni, proprietario della Vesuviana, squadra di calcio del paese, ed eterno “presidente”. Il protagonista non ricorda il suo vero nome, quello che si porta addosso gli è stato affibbiato dal padre in una notte di botte in cui perse tutti i denti. È stato rinnegato dalla figlia Rosina, che lo tiene lontano dai suoi nipoti, e non vede più l’amatissima moglie ‘Ngiulina, alla quale scrive lettere appassionate che però non hanno mai risposta.
Sangue di Giuda è romanzo che parla dei “dimenticati” dalla società, per questo è dedicato a Lelio Baschetti e Antonio Cosimo Stano, protagonisti loro malgrado di due tragiche storie di cronaca; il primo morto in casa in completa solitudine e ritrovato mummificato solo sette anni dopo la sua morte, il secondo torturato e ucciso per puro divertimento da una gang di ragazzini.
Ho avuto la fortuna e il piacere di chiacchierare con Graziano Gala riguardo a questo libro unico.
Il primo aspetto che colpisce del tuo romanzo è sicuramente la lingua, un incrocio di dialetti del Sud capace di descrivere cose e sensazioni con una precisione che solo il dialetto può avere. Da dove nasce questa lingua? Quali sono stati i tuoi riferimenti, letterari e non, nella sua “costruzione” (ammesso che una lingua si possa costruire)?
Filippo Reina mi ha insegnato, citando Baldini, che certe cose accadono solo in dialetto, altrimenti rischiano di non essersi mai verificate. È stata l’urgenza, il bisogno: sono convinto (anche se sembra da folli) di aver scritto un romanzo sotto dettatura ed uno malandato, con un dente in bocca, la condizione del clandestino sulla pelle e il fantasma paterno nelle tempie, che poteva far tutto tranne che raccontare con calma e diplomazia in una lingua di mediazione come quella italiana. Siamo una generazione sporca, perennemente pendolare, che fa l’elastico tra i due poli della nazione: conservare il dialetto equivale a non recidere, e le radici, specie quando tutto intorno è al crollo, sono particolarmente importanti. Sull’idea di affidarsi, di lasciarsi andare a quel racconto senza replicare (ma cento volte ho trattato con Giuda incassando parecchie sconfitte) ci sono dei cardini: Albino Pierro, meraviglioso poeta lucano, che lascia la lingua democratica per scrivere in lucano al solo fine di «salvare un rumore a scomparire», Argentina, D’Amicis, Donaera e Di Monopoli – la scuola pugliese, di generazioni diverse, ma con quella lingua dei padri da frantumare dall’interno – e infine mia madre che con la sua quinta elementare riusciva a spiegarsi con dei russi che ospitavamo a casa mostrandomi che la lingua è barriera solo per chi crede di averne una troppo importante. E poi Gadda, cento e mille volte: la parola è un giocattolo da sformare ed adattare alla necessità. Va trattata come un muscolo, mossa e flessa, altrimenti diventa gesso: blocca.
Alla fine del libro c’è un glossario col significato delle parole presenti nel romanzo, intitolato ‘A lingua ca me port’appresso. Questa espressione mi ha colpito: la lingua è dunque una sorta di fardello?
Un attrezzo: ciascuno con il suo. Qualsiasi parlante tra le mura domestiche cede ad un suo personalissimo idioletto, che sia farcito di dialetto, di neologismi o di bestemmie francamente non mi importa. Mi interessa tantissimo che ognuno possa avere un suo riconoscimento personale, una misura esatta, un qualcosa che possa essere inconfondibile alla stregua di un odore personale. Giuda usa i suoi strumenti, limitati forse ma appuntiti: di parole ne ha poche, deve incanalarle nel miglior modo possibile. Un fardello, forse, per lui, perché ‘a lingua ca se port’appresso diventa claustrofobia in un mondo che della lingua si serve per irretire, imbrogliare, avviluppare la gente e inciamparla nei tranelli. Sa di avere poche armi a disposizione, magari a volte se ne rammarica, eppure ha qualcosa in sé, quest’uomo, un nucleo originario che mi fa pensare: Giuda potrebbe dire qualsiasi cosa, il non capirlo, il non volerlo aiutare è celata malafede. È che i poveri poi son poveri, sempre con una parola in meno, e mi viene in mente Lettera a una professoressa di Don Milani mentre ti parlo: la lingua è anche questione di classe sociale – i ricchi la conoscono, i diseredati la vivono, e non mi sembra cosa da poco.
Il fatto che il romanzo sia scritto in modo inedito non sembra inficiare la comprensione, anzi è sempre piuttosto accessibile a chi legge. Vorrei chiederti quanto ti sei preoccupato di questo aspetto e se ha rappresentato in qualche modo un limite alla tua creatività.
Paura, paura nera: a freddo però, dopo, quando potevo metterci la testa e non cuore, stomaco o braccia. Fare altrimenti sarebbe stato un tradimento: meglio morire con le proprie armi. Questa storia poteva essere scritta solo così, questa è la voce di Giuda: roca, sporca e traballante, però sincera. A volte mi arrivano messaggi da persone dell’Emilia o del Veneto che scrivono nella sua lingua: mi commuovo. Quando il libro è andato in ristampa dopo dieci giorni mi sono inginocchiato sul pavimento e ho detto grazie. Ero pronto a tutto: io conto poco, i narratori sono al servizio dei personaggi. Volevo però che Giuda non restasse inascoltato. L’urgenza era per lui, non per me. Devo poi ringraziare i lettori che si sono prestati quando il libro era in corso d’opera, sono stati fondamentali per farmi comprendere una realtà nodale: le lingue si dividono in tanti rami, ma alla fine del gioco la questione è una e sostanziale – ci sono alcune lingue che hanno cose da comunicare. Giuda ne aveva molte, a cominciare da quel maledetto televisore. Quanto alla creatività poi, il contrario: giocare così significava poter trasformare tutto in una carnevalata a cielo aperto, prendere aria da ogni polmone possibile. Io in italiano – nell’italiano standard – mi annoio, non sono capace, ammesso che in altre situazioni lo sia.
Il protagonista ha una passione smisurata per Pippo Baudo, del quale dice: ‹‹Ca se è successo qualcosa di buono, ‘ntra ‘sta cazz’e nazione, è solo grazie a lui››. Possiamo dire che il presentatore televisivo è praticamente uno dei personaggi che sta costantemente sullo sfondo di tutta la narrazione. La scelta di Pippo Baudo è stata casuale o ha un significato ben preciso?
La scelta di Pippo Baudo viene da un ricordo del passato: sera tardi, casa che scivola nei malanni, preparazione a tragedie peggiori – a essere orfani di padre o madre ci si perde sempre. La mamma che cerca una tregua, un appiglio nel corridoio e ci dice: «Questa sera c’è Pippo Baudo in televisione, non può succederci niente». Eccolo, nella sua parte più bella, il Meridione: fabbrica di santi, luogo in cui dove Dio non arriva e a cui subentra la creatività, se necessario l’auto-inganno. Pippo Baudo è la garanzia, la protezione che a Giuda è stata sempre negata: c’è una frase meravigliosa di D’Amicis in Quando eravamo prede: «Chissà come sarebbe stato sentirsi al sicuro». Immagina cosa sarebbe avere un padre per bene e non un disgraziato muscolare e irrespirabile che ti picchia pure da fantasma. Il conduttore è la controprova, il desiderio, l’aspirazione. L’idea che possa esistere qualcuno sotto le cui braccia possa non succederci niente.
Nel rapporto tra Giuda e la comunità di Merulana si crea un cortocircuito per cui colui che nel paese è l’unico veramente “giusto” svolge in realtà la funzione di capro espiatorio sul quale viene proiettato tutto ciò che è negativo e disdicevole. Lo stesso avviene con Turi Bunna, l’omosessuale del paese che tutti scherniscono, gli stessi che poi vanno a cercarlo di notte. Credi ci sia un meccanismo “umano” ben preciso alla base di questo paradosso?
Umiliati e offesi, sempre. Giuda e Turi, fratelli di disgrazie che hanno in loro una caratteristica comune: il buono dei bambini, quella sincerità schietta che porta dolori, perché il bianco la gente tende sempre a sporcarlo, fosse solo per invidia o per uniformità di gregge. Antonio Cosimo Stano è stato ucciso di botte perché diverso, altro dal grigio comune. Lelio Baschetti è morto nell’indifferenza generale: non serve neppure il romanzo di un disgraziato come me, le falle di un certo tipo di società – che esclude, che lascia morire di solitudine qualsiasi occhio parallelo o divergente – sono palesi. Stigmatizzare, puntare l’indice addosso alla gente, proiettare la colpa, evitare accuratamente il dialogo: Giuda e quelli come Giuda hanno un problema radicale, che non è saper parlare, ma avere qualcuno che ti ascolti. C’è gente a un certo punto che si lascia andare o peggio ancora va, tantissimi: io misurerei il benessere sociale in numero di suicidi, non con i parametri da geometri che usano i gentili signori.
Sangue di Giuda è anche un romanzo sull’identità, che racconta il processo attraverso cui il protagonista riacquista il suo vero nome, dopo averlo perso in seguito all’evento traumatico, l’estremo atto di violenza del padre. Il ritrovamento del nome avviene però anch’esso in seguito alle botte e ad un “compromesso storico”. Mi sembra ci sia qualcosa di tragico in questo: il riconoscimento della comunità deve passare necessariamente da una perdita della “purezza”?
Ti ringrazio di cuore per questa domanda, speravo da tempo che qualcuno proponesse questo ragionamento: potrei dirti che i compromessi possono non essere al ribasso, ma con le bugie non sono capace. Sì, Giuda potrebbe ergersi a salvatore della patria, a soggetto perfetto di martirio, perenne specchio delle mancanze di un paesino che trema, ma diventerebbe immediatamente falso e letterario come se parlasse in italiano. Ci sono delle priorità, dei nervi scoperti oltre i quali non si è soliti procedere: la salvaguardia dei tuoi diritti, la tua incolumità, la possibilità di non essere oggetto di vessazioni. Giuda abdica a tutto, incassa senza fiatare: uno solo è il suo limite, l’amore di chi si ama. Ed è proprio lì che ci siamo incontrati, in un sentimento così elementare e pulito da essere irrisolvibile – ‘Ngiulina come misura di un’intera fede, come traguardo ultimo di un’odissea. In fondo questa qua, alla fine dei giochi, è una storia d’amore. Cosa sarebbe altrimenti, cosa saremmo, io e Giuda: due disperati, che riempiono la strada di notte. Un motivo ci vuole, sempre, anche per cadere, soprattutto per cadere. Montanari dice che l’amore ti insegna a morire. Ecco, lui sa spiegare bene: prendo in prestito da lui.
Nel personaggio di Mammoni ritroviamo difatti il classico politico locale con una sete di potere praticamente sconfinata. Questo potere non incontra però una vera resistenza (se non quella del nostro Giuda): gli abitanti di Merulana sono tutti suoi complici. Il romanzo, pur essendo una creazione di fantasia, racconta difatti molto bene la condizione meridionale. C’è un senso per cui questo libro è un’operazione “politica”?
La “politica del pacco di pasta”: mi piace chiamarla così. Ero scioccamente convinto fosse una questione tutta meridionale, poi l’ho trovata nella provincia della ridente Lombardia e ho capito che la miseria universalizza clamorosamente a qualsiasi latitudine. E non mi sento di incolpare nessuno: se hai fame vuol dire che qualcuno, questa fame, la alimenta per specularci. Stiamo tornando alla salutatio, alla processione davanti al padrone per vedere se ci avanza ‘ncuna cosa (gli avanza qualcosa). Il problema serio non è il compromesso e neppure la viltà: il problema sono i sogni, che svaniscono, e lì la colpa è pure tua che li hai lasciati andare. Cé, un personaggio a cui ho voluto bene, prometteva di diventare un bel calciatore, e allora perché uno finisce criminale? La politica ha una valenza diffusa: creare – me lo ha insegnato Mirabelli tempo fa – un paese senza soluzioni di incontro, senza svaghi e senza vie di fuga vuol dire soffocarlo, condannarlo a morte. Io credo che si siano delle intenzioni alla base: non può essere sempre ignoranza. Qui ne vedo cascare parecchi nella bottiglia o in affini, giù a casa era uguale. A volte, quando resto solo a casa, mi chiedo: siamo sicuri abbiano alternative? Tu Stato, tu partito, tu condominio stai facendo abbastanza perché questa rete possa tenere e salvarne il più possibile dal naufragio?
Giacomo De Rinaldis
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