Capannone n. 8, Deb Olin Unferth
(Edizioni Sur, 2021 – Trad. S. Manzio)
In una canzone molto divertente degli anni Settanta Cochi e Renato cantavano: ‹‹La gallina non è un animale intelligente››. Eppure il simpatico pennuto non è sempre stato simbolo di stupidità: nell’antichità incuteva anzi rispetto, era simbolo di forza vitale originaria. Quando è arrivata la denigrazione? Nel Novecento, assieme alla gabbia in cui l’uomo ha deciso di rinchiuderla. La gallina è dunque ancora in attesa di un riscatto da questa condizione, ed in un certo senso è proprio ciò che avviene nel rocambolesco Capannone n. 8, romanzo della scrittrice statunitense Deb Olin Unferth tradotto da Silvia Manzio per Edizioni Sur.
Janey e Cleveland sono due ispettrici addette al controllo sicurezza nei grandi allevamenti intensivi di galline ovaiole dell’Iowa: la prima, appena ventenne, vive con un padre laconico del quale ha appreso l’esistenza solo da adolescente e con cui non ha mai legato, la seconda invece svolge il suo lavoro con una precisione maniacale ed è sposata con un uomo piuttosto anonimo. Le due elaboreranno un piano folle: liberare novecentomila galline bianche di Livorno dai capannoni della Fattoria Felice Green. Saranno aiutate in questa impresa da esponenti di un movimento animalista ormai allo sbando: Dill (un tossicodipendente disperato e alle soglie del divorzio) e Annabelle, membro ribelle della stessa famiglia Green. I nostri eroi assolderanno più di quattrocento “ispettori” del movimento, uomini e donne che con tanto di esercito di camion contribuiranno all’operazione “libera-galline” e al loro trasferimento chissà dove.
La più grande liberazione di pennuti della Storia rappresenta il tentativo di far tornare alla sua forza originaria il movimento animalista, il quale ormai è stato addomesticato dal Sistema ed ha imparato ad accontentarsi di piccoli compromessi: è diventato insomma un ‹‹capitalismo con la coscienza››. L’impresa si rivela fallimentare in partenza, ma del resto i personaggi stessi non saranno mai così convinti della sua riuscita. Gli animalisti sono ormai disillusi e amareggiati: il Progetto non è che un’azione disperata per cercare di svegliare dal letargo il mondo frantumato di una civiltà occidentale ‹‹nata morta››. L’ambientazione della desolata terra dell’Iowa favorisce a evocare un’atmosfera apocalittica e crepuscolare: ci troviamo in mezzo a campi immensi sui quali in primavera aleggia un generale ‹‹odore di merda››, tra hangar senza finestre che sembrano rifugi antiatomici.
Lo stile di Unferth è uno degli aspetti più interessanti del libro: la scrittrice riesce a creare una narrazione multidimensionale, una composizione di prospettive, spazi e tempi diversi che però non risulta mai un artefatto esercizio di stile. L’autrice americana ha il dono di rendere semplice anche la tecnica narrativa più raffinata. La sua scrittura ricorda molto da vicino il cinema (o anche i fumetti, dal momento che è stata autrice anche di graphic novel): le descrizioni sono quasi inquadrature che con pochi tratti sono in grado di dipingere le situazioni in modo estremamente preciso. La scrittura mantiene sempre un certo ritmo e freschezza: ne è esempio emblematico la presentazione di alcuni degli ispettori del movimento – persone che potrebbero benissimo sparire dalla società senza che nessuno se ne accorgesse – che è costruita con un vertiginoso montaggio di descrizioni brevi e fulminanti.
La realtà dei capannoni è raccontata in modo rigoroso e scientifico: la scrittrice ha svolto intense ricerche prima di scrivere il romanzo, intervistando gli allevatori stessi e leggendo libri e articoli su un’industria da settantacinque miliardi di uova l’anno. Questo approccio le ha permesso di scongiurare il rischio molto concreto di realizzare un libro ideologico. La questione al centro di Capannone n. 8 non è infatti il semplicistico scontro tra animalisti e allevatori, tra buoni e cattivi, ma piuttosto la fatale capacità dell’uomo di distruggere tutto ciò che ha nei paraggi, per questo Unferth scrive: ‹‹Le stelle erano gli unici oggetti che gli umani potevano vedere senza distruggere››[1]. Tutto ciò non implica però un particolare giudizio morale (in senso deteriore) da parte dell’autrice, la cui missione sembra piuttosto essere, per dirla con le parole di Cleveland, quella di osservare ‹‹il mondo che muta››, credendo ‹‹nella bellezza e nell’orrore dei luoghi angusti, dei volti dimenticati, delle ampie distese.››[2]
La narrazione riesce a risultare agile non solo quando si muove tra punti di vista, spazi e tempi differenti, ma anche nei momenti in cui pone a confronto diversi mondi possibili: per una buona parte del romanzo infatti ogni azione di Janey rimanda a quelle di un’altra possibile Janey, che ha deciso di rimanere a New York con la madre invece che scappare in Iowa per conoscere il padre. La ricomposizione tra queste due identità, che passa proprio attraverso il progetto folle, è uno dei molti percorsi tracciati in questa opera corale.
Il concetto di possibilità riguarda anche le nostre amiche ovaiole, il cui prototipo è Bwwaauk, una gallina fuggita dall’allevamento dei Green che a un certo punto si para davanti a Cleveland, facendole scattare la scintilla per l’inizio dell’operazione di liberazione. Bwwaauk è un po’ come il filosofo della Caverna di Platone, che esce dal mondo delle ombre per scoprire la luce: a “vivere” nei capannoni sono infatti in realtà delle ‹‹aberrazioni››, creature che hanno subito un arresto del loro sviluppo naturale, il cui “vocabolario mentale” è atrofizzato. Al tempo stesso, non appena hanno la possibilità di liberarsi, le galline esprimono la loro reale natura, risvegliando quel gene sopito ma testardo che l’uomo ha nascosto per soddisfare i propri bisogni.
Come Janey, Bwwaauk è un concentrato di potenzialità non attualizzate, al confine tra i due possibili mondi della gabbia e della libertà. Nel leggere il romanzo è quindi molto (e forse troppo) facile pensare ad un parallelismo tra la condizione delle galline nel capannone e quella dei loro liberatori. Forse questi animalisti allo sbaraglio non conducono semplicemente le galline fuori da una situazione di non-vita, ma stanno anche cercando di liberare sé stessi da esistenze disperate e insignificanti.
Giacomo De Rinaldis
[1] p. 245.
[2] p. 344.