Vita e avventure di Drovetti, iniziatore del Museo Egizio

Drovetti l’Egizio, Giorgio Caponetti
(Utet, 2022)

Copertina DrovettiAnno 1824: sono ottomiladuecentoventidue i reperti egiziani venduti al re sabaudo Carlo Felice da Bernardino Drovetti, console d’Egitto al servizio della Francia.
Centosessantanove papiri, millecinquecento scarabei, novecentotrentuno amuleti, centodue mummie, un centinaio di statue che formeranno il primo nucleo del Museo Egizio di Torino e che sono ancora oggi riconoscibili tra gli altri reperti presenti al Museo grazie ai numeri di inventario: sono quelli che iniziano per “C” o “CAT”.

Bernardino Drovetti, nato a Barbanìa il 7 gennaio 1776, fu uno dei tanti giovani borghesi che credette negli ideali della Francia rivoluzionaria. Per questo a ventun’anni si arruolò nella Lègion italique dell’esercito napoleonico, decidendo di schierarsi contro i Savoia e, quindi, contro i suoi stessi compatrioti. Sarà però durante la battaglia di Marengo, il 14 giugno del 1800, che la vita del giovane Drovetti subirà una svolta, in uno di quei momenti in cui, per coincidenza o per destino, ad una persona si apre una nuova possibilità: il barbaniese salva la vita al generale Murat. Da quell’istante la sua carriera è in ascesa: prima militare, poi giuridica, poi diplomatica, e, nel 1802, Napoleone Bonaparte lo nomina viceconsole ad Alessandria d’Egitto. Drovetti vi giunge nel giugno 1803, e ci rimarrà quasi ventisette anni.

A inizio secolo l’Egitto è diviso tra diverse fazioni locali in lotta tra loro per il potere, la guarnigione francese e quella inglese. Il sultano dell’Impero Ottomano, formalmente a capo dello stato, è geograficamente troppo lontano per intervenire. Bernardino Drovetti inizia la sua carriera di diplomatico in questo contesto, imparando presto l’arte del mestiere e a intessere relazioni tra le personalità più in vista in quelle terre orientali. Appoggerà l’ascesa di Mehmet Ali fin da subito, coltivando un rapporto di fiducia e amicizia col viceré al punto che gli verrà chiesto di educare alla cultura occidentale il suo figlio primogenito, Ibrahim. Per tutti gli anni del viceconsolato di Drovetti al Cairo, il viceré si premurerà di ricevere consigli da lui riguardanti la modernizzazione dell’Egitto, per esempio iniziando una campagna vaccinale contro il vaiolo. Quando il piemontese fu momentaneamente sospeso dall’incarico a seguito dell’abdicazione di Napoleone, Mehmet Ali lo nominò consulente al servizio del Regno d’Egitto.

Tuttavia fu monsieur Lapouge, un francese che viveva ad Alessandria da parecchi anni, che avvicinò il viceconsole alle antichità egizie. Con la spedizione di Napoleone in Egitto si era già aperta la stagione dell’interesse, tutto occidentale, per la cultura faraonica, comunemente conosciuto come “Egittomania”. Anche il viceconsole ne subisce il fascino e inizia ad acquistare reperti di diverso tipo ed epoca dai civili egiziani che visitavano le antiche sepolture per saccheggiarle. Nel 1807 fa portare da Alessandria al Cairo già alcune decine di statue e statuette egiziane, che si aggiungono alle altre rimaste ad Alessandria e alla collezione di scarabei che gli venne regalata da Lapouge. Decide poi di assumere Jean Hakim Sahim Stern, un ragazzo originario del Fayyum, come dragomanno, una sorta di traduttore nato dall’unione tra un europeo ed un’egiziana. Sarà lui che insegnerà a Drovetti le basi della cultura egiziana antica. In quel periodo è piuttosto comune che i diplomatici occidentali stanziati presso gli stati che si affacciano sul Mediterraneo sud-orientale dedichino il loro tempo libero a sterrare antichità. Non si parla ancora di veri e propri scavi archeologici condotti con metodi scientifici, perché si era più vicini al collezionismo antiquario. Il viceconsole di Francia non ne è da meno, anzi, avrebbe detto, «Fumse manché gnente, nèh? Non facciamoci mancare niente».

Drovetti matura presto l’idea di vendere i reperti che sta raccogliendo ad un museo europeo, magari il Louvre. Grazie a Faruk al-Kindi, il Saggio, presentatogli da Stern, diventa un esperto della cultura egiziana antica e, nel 1811, giunge per la prima volta a Karnak. È poi la volta di Edfu, Assuan e File, nel sud dell’Egitto, accompagnato da una guarnigione di duemila uomini mandati da Mehmet Ali per sua sicurezza e, soprattutto, per intimidire la confinante Nubia. Mentre Napoleone muove il suo esercito alla volta di Mosca, Drovetti chiede al viceré il permesso di far scavare a Karnak. A quel punto, però, non era più il solo a occuparsi di antichità: nel 1815 era stato nominato come console generale britannico Henry Salt,  che aveva il suo stesso interesse per i reperti. Tra i due consoli e gli uomini che scavavano per conto loro, Rifaud e Cailliaud per il francese, Belzoni e d’Athanasi per l’inglese, sorse una vera e propria competizione.

Mentre Drovetti era in trattativa con la Francia per la vendita della sua collezione, incontra Carlo Vidua, un altro piemontese, che lo convince invece a rivolgersi al re sabaudo Vittorio Emanuele. È il 1820 e Drovetti tentenna. Il curatore del Louvre gli fa capire che Luigi XVIII potrebbe insignirlo della croix de la Légion d’honneur e che potrebbe rimetterlo a capo del consolato. Nel frattempo anche un nobile inglese, Lord Alexander Hamilton, si rivolge a lui per la collezione di antichità. Sono però i Savoia che accettano per primi il prezzo, anche se dovranno passare ancora due anni prima che l’affare sia davvero concluso e altri due perché la collezione venga disposta nelle sale dell’Accademia delle Scienze torinese, dove verrà studiata anche da Champollion, che proprio in quegli anni era riuscito a decifrare la scrittura geroglifica. Nel 1829 Drovetti lasciò l’Egitto per sempre. Aveva venduto una seconda collezione, più piccola, al Louvre, e ne venderà una terza all’Ägyptisches Museum di Berlino.

Dopo Quando l’automobile uccise la cavalleria, storia della nascita della FIAT, e Il grande Gualino, ancora una volta Giorgio Caponetti si cimenta nella stesura della biografia di un avventuroso piemontese, dimostrando una grande abilità nello scovare storie e personaggi accattivanti che, pur facendo parte della storia d’Italia, spesso sono sconosciuti alle persone che non sono del campo. L’autore, come indica lui stesso al termine del libro, ha deciso di romanzare alcuni aspetti della vita di Bernardino Drovetti pur lasciando che la verità predominasse sul racconto, anche grazie allo studio di numerose fonti storiche. Caponetti ha compiuto, infatti, un approfondito lavoro di ricerca anche grazie a egittologi quale Donatelli, e riporta diverse missive facenti parte dell’epistolario del console, rimaneggiandone la lingua perché non risulti pedante o di difficile interpretazione. Nonostante ciò, il tono delle lettere rimane pressoché inalterato, garantendo coerenza con quello originale. Al tempo stesso, per aderenza al parlato dell’epoca, Caponetti sceglie di usare alcuni intercalari ed espressioni in piemontese, che vengono poi segnalati e subitamente tradotti in italiano.

Drovetti l’Egizio è un libro scritto oggi, un momento storico in cui ci si chiede se sia giusto che i musei dei Paesi occidentali siano pieni di reperti presi ai Paesi appartenenti alle ex-colonie. Esso racconta delle relazioni tra gli uomini e le donne che vivevano da stranieri in Egitto, di un tempo in cui chi era un occidentale ai vertici della società in una terra medio orientale deteneva molto potere e una forte ascendenza sugli autoctoni. Per fare ciò, l’autore lascia largo spazio alle lettere ricevute e inviate dal viceconsole e a lunghi dialoghi, che raramente cadono nell’artificioso.

Quel che ne risulta è che questo libro si possa leggere su due piani diversi ma non complementari. Da una parte si trova una biografia approfondita e accurata dal punto di vista storico, che lascia emergere le idee e le mire di Bernardino Drovetti, diplomatico, collezionista e anche, in ampia misura, uomo d’affari. Dall’altra parte e al tempo stesso, c’è un romanzo molto godibile che racconta la vita avventurosa di un piemontese (l’Italia non era ancora nata), le vicende di un uomo affascinato dall’esotismo del luogo in cui, per ragioni politiche, si trovò a vivere, dalla sua storia e dalla sua cultura millenaria. Una cultura che egli riuscì a far respirare anche in Italia grazie alla sua Collezione e che, da allora fino ad oggi, sarebbe altrimenti stata preclusa ai più.

Eleonora Mander

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