Gemma Reeves, Victoria Park
( Atlantide, 2021 – Trad. Marina Sirka Mosur )
Installato nel quadrante est della città, il Victoria Park è il parco più antico di Londra. Per Gemma Reeves, questo luogo non è solo il centro fisico intorno al quale le sue storie ruotano (fisicamente, in quanto dislocate nelle sue vicinanze, e idealmente come attratte dalla staticità e monumentalità del parco) ma è anche il simbolo di come gli spazi comuni possano rappresentare l’animo e la personalità di chi li vive.
Nel suo primo volume di racconti, infatti, Gemma Reeves (londinese, evidentemente legata a doppio filo alla capitale inglese e a quello che rappresenta), ci descrive una porzione ben determinata di Londra, quasi un quartiere. Le storie danno vita a una costellazione di esperienze su cui vengono gettati sguardi parziali, nel tentativo (quasi sempre riuscito) di isolarne delle sezioni.
Quel parco aveva quasi duecento anni e lui immaginava le radici sotto le sue scarpe da ginnastica bianche, aggrovigliate da decenni, che si spingevano oltre i cancelli, antiche e ambiziose. Pioppi neri, eucalipti, castagni: erano tutti maestosi, certo, ma anche storici e curvi; alcuni persino goffi, e questo lo aiutava ad accettare il proprio corpo. L’artrosi, i calli, le macchie della pelle. Lui invecchiava, gli alberi pure. Era il corso della natura: alla crescita seguiva il declino. (p. 9)
I dodici racconti della raccolta rispecchiano le mensilità di un anno, da ottobre a settembre. Leggendo l’incastrarsi graduale delle storie e delle famiglie descritte, il modello a cui la Reeves sembra ispirarsi è certamente la Jennifer Egan de Il tempo è un bastardo. Sebbene in quest’ultimo la temporalità fosse un elemento maggiormente determinante nella definizione (anche a distanza) di alcune vicende.
In Victoria Park, invece, si ha la sensazione a volte di essere in un presente già compiuto, delimitato, e che la scrittura non sia che un modo per determinare quello che la vita ha già “compromesso”.
Il più delle volte tenere traccia del passare del tempo era ormai una vera e propria impresa. Da quando aveva lasciato Malik, il tempo sembrava scorrere in modo diverso, come se qualcuno avesse allentato un ingranaggio dietro il quadrante di un orologio. Ora gli intervalli tra un tic e un tac erano più lunghi. Camminava con passo più lento. Mangiava languidamente. Niente per cui affrettarsi, tutto da assaporare. (p. 197)
Le vite dei personaggi di Victoria Park, infatti, non hanno nulla di particolare, se non la normalità di essere ciò che sono. I segreti – come quelli contenuti in Febbraio – Giallo chiaro, forse il racconto migliore della raccolta – sono celati maldestramente, naturali nella loro scontentezza. Questa sincerità è un pregio del libro poiché è grazie a tale trasparenza che l’autrice ci mostra il destino fragile di ogni esistenza. La disamina delle vite è dunque piana, senza scossoni, assolutamente intellegibile; in questo molto simile a tanti racconti carveriani che, soprattutto in Marzo – Condividere il tempo riecheggia abbondantemente.
In questo racconto il rapporto madre-figlio è fortemente influenzato dalla condizione precaria di quest’ultimo che si trova ricoverato in ospedale. Lo svelamento graduale del contesto e delle azioni principali – tutte già svolte, già successe, passate – rende l’attesa della madre un oggetto letterario interessante e colmo di umanità. È impossibile non pensare alle dinamiche che Carver descriveva in Una cosa piccola ma buona e alla delicatezza con la quale entrambi affrontano l’incertezza e il dolore di una madre costretta a un’attesa prolungata.
Vicky usò tutte le sue energie per restare in piedi, a braccia conserte, con i polpastrelli che mordevano la carne, cercando di ignorare l’odore di ammoniaca, cercando di non pensare al futuro perché la speranza era diventata solo un gran tradimento. (p. 104)
Lo spettro delle umanità descritte è ampio: c’è la coppia di anziani che lotta con la perdita di memoria di lei; ci sono gli immigrati italiani (veneti per la precisione) ben integrati e che però mantengono una loro identità e distanza apparente dagli autoctoni; gli adolescenti impegnati nell’esplorazione del loro corpo e nella difficile impresa di essere se stessi; due ragazze che stanno svolgendo un complicato percorso medico e psicologico perché una di loro, Mia, possa rimanere incinta.
Ecco allora che intorno a un parco, il più antico della città, si condensano storie del nostro millennio, si intrecciano questioni etiche, sociali e politiche con le quali ci sporchiamo le mani quotidianamente. Il pregio della Reeves – in un libro che certamente non può far gridare al capolavoro, ma che è senz’altro preciso, curato e ben pensato – è quello di appoggiare ogni cosa sullo stesso ripiano, come a voler mostrare al lettore il maggior numero di sfumature di tutti i colori principali.
Le dita di Mia sfiorarono le costole di Bettie, proseguirono giù, verso la curva dei suoi fianchi, attirandola a sé. Bettie fu attraversata da brividi di piacere. Ondate di piacere. Non era giallo. Era blu. L’amore era blu cielo. Come guardare fuori dal finestrino di un aereo per la prima volta. (p. 132)
L’autrice ha certamente attinto a piene mani dalla sua esperienza per scrivere questi racconti: la città multietnica, aperta e traboccante di contraddizioni, sta alla base di tutta la narrazione. Il parco ne rappresenta una sezione interessante e, a volte, i simboli si scelgono anche per comodità. I racconti di Victoria Park hanno però il problema di non essere dinamici: lasciano tutto come trovano. Per certi versi questa scelta può sembrare una carezza nei confronti delle storie, per altri può apparire come un’occasione mancata.
Una piccola nota sull’oggetto libro: è noto che Atlantide scelga con attenzione la carta e tutto quello che confeziona fisicamente un libro. La cura è notevole, così come è notevole il fatto che ogni volume sia numerato e rappresenti veramente un unicum in mano al lettore. Un modo molto audace e riuscito di fare editoria.
Saverio Mariani
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