Quella faticosissima avventura che è scrivere: intervista a Claudio Conti

copertina-luomo-che-ha-venduto-il-mondoIl pianeta viene gettato nel panico dall’inspiegabile apparizione di una riga in cielo, che presto si fa squarcio e minaccia catastrofica. Questo è il nodo centrale di L’uomo che ha venduto il mondo, in cui si susseguono le vicende di Fede, Gioele, Tony e Sara, che si arrabattano come possono per cercare la salvezza nella devastazione. Intanto Lisa, la figlia di dieci anni di Fede, si è rintanata in un mondo fantastico popolato da personaggi assurdi. Si insinua in Fede il sospetto che all’origine di tutti i fatali eventi possa esserci il padre, Geremia, un fisico dalle teorie stravaganti, la cui morte è avvenuta in circostanze misteriose proprio la mattina in cui la riga ha smagliato il cielo: è saltato in aria nel suo casolare nella periferia di Roma, probabilmente mentre era alle prese con uno dei suoi esperimenti pazzoidi.

Il personaggio di Geremia e le sue bizzarre teorie rappresentano davvero una chiave di volta della storia, nel suo intersecato inanellarsi di piani temporali, per quanto certi enigmi comunque sopravvivano, giacché nel suo mosaico di tessere impazzite la trama tiene insieme una catena di eventi che rappresentano solo una delle infinite possibilità di come potrebbero essere andate le cose. Ho avuto la fortuna di poter fare all’autore Claudio Conti alcune domande sul suo caleidoscopico romanzo d’esordio, arrivato in finale alla XXXIV edizione del Premio Italo Calvino e pubblicato quest’anno dalla casa editrice Pessime Idee.

In una tua intervista rilasciata per il Premio Calvino, raccontavi che il testo ha avuto una lunga e varia gestazione. In stadi precedenti alla sua stesura definitiva, il romanzo aveva già la forma da matrioska iperbolica, ripiena di altre storie e sotto-trame che si sviluppano lungo diversi piani temporali, come è adesso nella sua forma finale?

Com’è nato il romanzo è già metafora della storia che poi viene raccontata, nel senso che è nato nel pieno caos, non son partito da nessuno schema, che è venuto solo dopo. La prima idea da cui si è diramato tutto è stata quella dell’incidente, evento che si incontra circa a metà della storia, simbolico perché metaforizza l’idea che non si possa tornare indietro, a meno che tu non sia Geremia, ossia il personaggio che cerca di rendere quell’episodio reversibile. Un altro dei temi del romanzo è infatti l’impossibilità in cui ci imbrigliano le scelte che facciamo. Io ho provato a mio modo a rendere irreversibile una scelta come quella della scrittura.

In che forma si è presentato in te il desiderio di scrivere: aveva già l’identità di questa precisa storia che ti premeva dentro?

Convivo con la voglia di scrivere d quando ero adolescente. L’idea di scrivere una storia mia perciò l’avevo già, ma l’ho sepolta per tantissimi anni durante i quali non ci ho più pensato. Crescendo poi ci si lascia prendere e distrarre dalla propria vita complicata – ma complicata in maniera banale, nel senso che ho un lavoro che mi occupa tutto il giorno e infatti, quando ho cominciato poi a scrivere il romanzo, lo facevo la notte. È stato faticosissimo. Forse è più difficile spiegare perché ci ho provato ora; come capita forse a tutti, dopo i quaranta ho avuto la coscienza dell’assurdità di tutto quello che ci capita. Penso al mito di Sisifo raccontato da Camus: spingere un masso verso la cima di una montagna, combattendo contro un peso impossibile. Inizi a chiederti cosa avresti potuto fare, come sarebbe andato se. In più, credo che nel periodo in cui ho ricominciato a scrivere mi abbia aiutato tantissimo l’abitudine di correre, con la sua azione depurativa, per il corpo e per le idee; mi pare di ricordare un saggio di Murakami intitolato proprio «L’arte di correre e il mestiere di scrivere».

Nel libro, in circostanze misteriose e improvvise, una riga compare nel cielo. Da lì gli eventi precipitano presto e in maniera distruttiva tanto per i personaggi quanto per i luoghi: il lettore assiste a catastrofi naturali che martoriano la città di Roma, presentissima nel romanzo, come se fosse molto più che pura scenografia e ambientazione. Perché proprio Roma?

Di tutte le ambientazioni del libro, Roma è l’unica che conosco, avendoci vissuto per tutta la vita fino a poco meno di vent’anni fa. Torino l’ho visitata una volta, mentre invece Novara e soprattutto la Svezia, che è l’ambientazione in cui la storia si sposta nella seconda parte, non le ho mai viste. Dato che mi capita a volte di accorgermi quando l’ambientazione di un romanzo è fittizia, quando cioè si scrive con Google Maps, io ho avuto paura che fosse visibile il fatto che tratteggiavo luoghi a me non noti. E però nessuno si è lamentato di inverosimiglianze o forzature, per cui spero non se ne vedano.

C’è qualche immagine letteraria, filmica o di altra natura che pensi ti abbia suggestionato nel raccontare questa storia?

Penso all’immaginario che ha cementato gli anni ’80: io sono stato ragazzino in quegli anni, e secondo me sono stati una decade fondamentale per capire quello che viviamo adesso, a livello di cultura di massa. Videomusic, i videogiochi, il film fantastici e di fantascienza dedicati al pubblico adolescente (io, ad esempio, guardavo tantissimi film). Ho assorbito e forse ho riversato nel romanzo i frutti di quell’immaginario. Dal punto di vista letterario i romanzi che sono stati importanti sono sicuramente La strada di Cormac McCarthy, per ovvie ragioni, e citerei anche La schiuma dei giorni di Boris Vian e Comma 22 di Joseph Heller. Questi ultimi due mi hanno fatto capire che era possibile scrivere una storia surreale, comica e disperata insieme.

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Mi riaggancio a quei fenomeni naturali catastrofici che seguono la comparsa della riga, associandoli a un certo sentimento post-apocalittico che attraversa in misura massiccia la narrativa contemporanea, non soltanto italiana. Allora, con la premessa di considerare le macro-categorie dei generi letterari come dei ricchi calderoni e non delle gabbie in cui incasellare le opere, tu ritieni che il tuo romanzo si accordi a questo filone distopico così prolifico negli ultimi anni?

Non avendo scritto il romanzo con nessuno scopo programmatico, ovviamente non avevo neppure chiara la finalità di farlo rientrare in un genere letterario preciso. Molti di quelli che l’hanno letto l’hanno associato fin da subito al filone distopico, forse anche per comodità commerciali, e però quella della distopia è chiaramente una falsa pista, perché è solo come una di quelle armature che si montano intorno ai palazzi. La fantascienza è un vestito che nasconde altro, una miscela di altri generi che non sono affatto riconducibili alla sola fantascienza. Io volevo parlare dei sentimenti.

E a proposito dei sentimenti: a un certo punto della storia Geremia dice: «Io non ho mai compreso le persone. Non sono mai riuscito a codificare quello che sentivo per loro, né quello che loro provavano per me. Ogni singola emozione che ho percepito ha sempre finito col perdersi in una nebbia interpretativa. Per questo, è evidente, mi sono occupato per tutta la vita delle emozioni, senza mai carpirne il segreto. Ho visto la loro energia, di cosa sono fatte, sono stato in grado di misurarle, perfino di catturarle; ma non so nulla di come ci cambiano». Il romanzo è pieno di concentrati di emozione esplosivi: com’è stato raccontarli dovendoli però setacciare con la sensibilità iper-razionale di questo personaggio, che le tratta come se fossero materiali da laboratorio o asettiche formule chimiche?

La mia idea era parlare della fragilità dei sentimenti, tra questi ovviamente l’amore. Dall’esergo del libro, cioè la citazione dalla canzone di Ornella Vanoni «Io ti darò di più/ di tutto quello che avrò da te», c’è già tutto: l’amore visto come una promessa. E questo è un libro di promesse mancate: l’idea che l’amore sia una promessa iniziale, che in un rapporto deve diventare qualcos’altro altrimenti si tramuta in infelicità. Il libro in fondo si chiede proprio se l’amore sia un sentimento positivo o negativo. L’unico personaggio che non capisce questa cosa, perché è affetto da un patologico analfabetismo emotivo, è Geremia, il quale non riesce a distinguere i sentimenti che prova. In questo è diverso da un anaffettivo, che interpreta e comprende i suoi sentimenti ma semplicemente decide di non esprimerli. Il disturbo di Geremia invece fa sì che tratti i sentimenti nell’unica maniera in cui è capace, e cioè da scienziato, come fossero formule. È questo che lo rende unico nelle sue reazioni, di fronte a quell’evento tragico e irreversibile che è l’incidente, che lui concepisce come un ‘errore da correggere’: invece di scendere a patti col dolore e di conviverci, elabora un piano che non si sa come interpretare, se come un gesto di egoismo, di disperazione o d’amore.

Vorrei chiederti ora della tua esperienza con il Premio Calvino: il tuo romanzo è infatti stato segnalato alla XXXIII edizione, ed è poi arrivato finalista a quella successiva. Com’è stato partecipare al Premio?

L’esperienza di partecipare al Premio Calvino è stata molto costruttiva. Io ho partecipato tre volte con lo stesso testo che per due volte è stato segnalato, e nell’ultima edizione è arrivato tra i finalisti. Di anno in anno lo rimaneggiavo e limavo attraverso interventi di editing anche radicali. Penso a quello operato sul testo con cui poi ho partecipato all’ultima edizione, un pesante editing fatto con l’aiuto fondamentale di Nicoletta Verna: con quello ho eliminato quasi centomila battute dal romanzo, ossia l’equivalente di un romanzo breve; ho soppresso interi personaggi e tagliato via parti che lo rendevano troppo assurdo. Perciò credo che il premio sia una scorciatoia pazzesca ma difficile.

Intervista di Viviana Veneruso

In copertina foto dell’autore in libera concessione

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