La rivolta degli appesi, B. Traven
(WoM Edizioni, 2021 – trad. di D. Barattin)
Non c’è modo migliore per introdurre un discorso su La rivolta degli appesi di B. Traven che riportare l’avvertenza con cui si apre il volume dell’edizione italiana, curata da WoM Edizioni:
Per la traduzione si è tenuto conto di diverse versioni in tedesco – le quali divergono le une dalle altre – oltre che delle versioni spagnola e inglese, entrambe approvate da B. Traven in vita e risultanti l’una essere la traduzione dell’altra (a loro volta divergenti da quelle tedesche), perché nel mondo di B. Traven l’unica cosa sicura è l’incertezza.
B. Traven è lo pseudonimo misterioso di uno scrittore privo di identità, presumibilmente tedesco, attivo nella prima metà del Novecento e autore di alcune importanti opere letterarie ambientate per lo più in Messico. Le ipotesi sulla sua vera identità stimolano la curiosità (e la fantasia) di critici e letterati, ma B. Traven ha fatto attenzione a non lasciare abbastanza indizi da facilitare le ricerche, entrando in dialogo con editori e ammiratori attraverso lettere ambigue ed emissari fedeli. Potrebbe essere l’ex attore anarchico Ret Marut, il fotografo Berick Traven Torsvan, o magari Esperanza López Mateos, sorella del futuro Presidente del Messico Adolfo López Mateos. O forse nessuno di loro. Tutto quello che rimane di B. Traven sono i suoi romanzi, solo alcuni dei quali tradotti anche in italiano.
WoM Edizioni contribuisce a colmare questa lacuna riportando in Italia uno dei suoi titoli più iconici, tradotto in italiano con La rivolta degli appesi ma conosciuto anche più semplicemente come I ribelli. L’opera fa parte del più complesso “ciclo della caoba”, una serie di romanzi pubblicati tra il 1931 e il 1940 in cui l’autore mette in scena il crudele trattamento riservato ai lavoratori delle monterìas, campi di lavoro dove gli indios messicani venivano schiavizzati per la produzione di mogano.
È questo il destino che spetta all’indiano tsotsil Càndido Castro, onesto e virtuoso uomo libero che si accontenta di poco e vive felicemente nella sua colonia agricola. Il giorno in cui la moglie Marcelina si ammala, Càndido viene però risucchiato nel gorgo criminale dei debiti con i signori locali. La donna muore sull’uscio dello studio medico, ma Càndido si ritrova comunque a dover ripagare i debiti inutilmente contratti per garantirle una cura. Lui, i suoi due giovani figli, la sorella Modesta e un paio di maialini si mettono quindi in marcia per andare a lavorare come bestie da soma in una delle più importanti monterìas del Messico, La Armonìa.
I suoi spietati proprietari pensano e agiscono come tutti i loro pari, in un mondo attraversato da profonde disuguaglianze di classe, in cui l’inferiorità degli indios è talmente radicata nel tessuto sociale da essere considerata naturale e inevitabile. Ed è così che Càndido si va a mischiare alla massa di sfruttati, schiavi del sistema soggetti alle costanti vessazioni dei potenti. Se nella prima parte del romanzo il suo punto di vista domina la scena, una volta giunto nella monterìa la voce di Càndido cede il passo alla dimensione corale della narrazione. I veri protagonisti sono loro, taglialegna e bovari, una moltitudine di oppressi che accetta di chinare il capo davanti alle frustrate, agli orari massacranti di lavoro, alle richieste impossibili dei potenti. E quando non riescono a portare a termine gli incarichi giornalieri, quegli stessi disperati vengono appesi a testa in giù per un’intera notte, alla mercé degli insetti e degli animali selvatici, con i corpi attraversati da ferite ancora aperte.
«Quel coyote di La Mecha, dopo averlo appeso, gli ha lacerato la pelle con una spina affinché le formiche, le mosche e chissà quali altri insetti potessero succhiare più facilmente. Allora, ragazzi, ditemi, dove credete di essere? In una finca? Al vostro villaggio dove soltanto pidocchi e pulci possono mangiarvi? Qui non vi trovate solo all’entrata dell’inferno, siete nel suo abisso più profondo.»
Le descrizioni delle vessazioni subite nelle monterìas sono brutali ed esplicite. Alimentano nel lettore il senso di sconcerto, disprezzo e rabbia che trova poi uno sfogo nella seconda parte dell’opera, quando le umiliazioni degli indios raggiungono il loro culmine e la massa di lavoratori esplode in una rivolta. Improvvisamente, alcuni dei personaggi più ricorrenti si mettono alla guida di un movimento rivoluzionario che attraversa non solo La Armonia, ma tutte quelle realtà schiaviste che perpetuano ideali di superiorità sociale e razziale. Gli appesi si ribellano al grido di Tierra y libertad, chiedendo proprietà terriere non solo per se stessi, ma per tutti i loro simili.
È proprio quando scoppia la rivolta che il mite Càndido scompare definitivamente dalla scena. La sua innocenza a purezza d’animo coglie subito la simpatia del lettore e contribuisce a rendere tragiche le vessazioni a cui viene sottoposto insieme ai suoi compagni, ma quando giunge il momento della rivolta non c’è più spazio per innocenza e purezza. Al contrario, anche se B. Traven si pone apertamente dalla parte dei ribelli, non traccia un’immagine eroica delle loro azioni. Gli appesi sono capaci di appendere, di vessare e torturare i loro nemici, e lo fanno spesso in una posizione di inferiorità culturale che li costringe ad appoggiarsi alla figura di un Professore, considerato superiore alla massa proprio perché ha ciò che manca ai suoi compagni: la conoscenza.
B. Traven costruisce una narrazione avvincente dando voce agli ultimi della società messicana. Non c’è da stupirsi che venga spesso rivendicato come uno degli autori simbolo della letteratura messicana del Novecento, alla luce soprattutto del mistero che avvolge la sua persona. La storia è attraversata da profonde connotazioni ideologiche, che soprattutto nella seconda parte del libro diventano talmente tanto predominanti da farsi quasi didascaliche, ma mantenendo comunque una certa coerenza con il tono generale dell’opera. La rivolta degli appesi non aspira a essere un romanzo imparziale, ma va letto soprattutto per questo.
Anja Boato