Quando dal sangue non c’è via di fuga

Cos’hai nel sangue, Gaia Giovagnoli
(Nottetempo, 2022)

Ci sono dei richiami a cui è impossibile sfuggire: uno è quello di ciò che abbiamo nel sangue. E il sangue, a volte, ci porta molto più lontano del previsto, specialmente quando è il simbolo di un legame viscerale e complesso come quello tra madre e figlia. È proprio dal richiamo del sangue che comincia il romanzo d’esordio di Gaia Giovagnoli edito da Nottetempo.

Caterina vive con la madre malata e tenta di non farsi sopraffare dal groviglio di emozioni contrastanti che quel rapporto ha inciso nella sua vita. Questa madre senza nome è a tratti ancora la figura tirannica e dispotica che le ha segnato irrimediabilmente l’infanzia e l’adolescenza; in altri momenti, però, è solo una creatura indifesa e sopraffatta dal dolore. In questo dualismo per Caterina non c’è nessun altro ruolo possibile se non quello di spettatrice rassegnata, almeno finché alla loro porta bussa un uomo che dice di essere un antropologo e chiede di poter parlare con la madre.

È l’apertura di uno spiraglio imprevedibile sul passato della donna: Caterina scopre l’esistenza di un posto chiamato Coragrotta, un paese nel quale sua madre avrebbe vissuto l’infanzia e l’adolescenza e che ha per l’antropologo un fascino misto a terrore. Per quanto sembri irrealistico e inverosimile che la madre abbia avuto una vita propria così diversa da quella che ha poi condotto con la figlia, Caterina è costretta a riconoscere la verità nelle domande dell’antropologo e a lasciarsi coinvolgere dal mistero del paese.

Coragrotta è un paese che sa di assenza di tempo e terriccio bagnato. Avvolto da un’atmosfera sapientemente sospesa tra il realismo magico e l’indagine scientifica, Coragrotta è soprattutto il posto dove le dinamiche di potere si esasperano e vengono ribaltate. Qui gli uomini, chiamati svarduni, sono poco sviluppati e inabili a ricoprire ruoli di comando, il loro scopo principale è servire da strumenti di riproduzione per le donne, in modo da aiutarle a ricoprire l’unico ruolo che conta davvero: quello della madre.

Questa smania per la maternità delle donne di Coragrotta non è solo un istinto di conservazione per preservare gli ultimi brandelli della loro fertilità, ma un vero strumento di potere. Avere un figlio vuol dire anche poter esercitare del potere su qualcuno: è la dinamica da cui la madre di Caterina non è riuscita a sfuggire, pur essendosi lasciata Coragrotta alle spalle con la promessa di diventare una madre diversa dalla propria.

Mentre Caterina risale la linea del sangue scoprendo le origini di sua madre e le ragioni dei suoi comportamenti più strani e severi, Cos’hai nel sangue si configura sempre di più come un romanzo di figlie che cercano di tirarsi fuori dall’ombra delle madri. Nonostante Caterina sia la voce narrante dell’opera, di lei sappiamo relativamente poco: possiamo farci una vaga idea della sua età e del suo percorso, ma non sappiamo che vita ha fatto prima di dover tornare a prendersi cura della madre malata, non abbiamo idea di quali siano i suoi interessi o le persone nella sua quotidianità, la conosciamo solo tramite le sue ossessioni.

È un personaggio che si condanna a raccontare qualcun altro – sua madre prima, l’intera Coragrotta poi – sotto il peso schiacciante della sensazione di dover restituire qualcosa alla donna e al luogo che le hanno dato origine. La necessità di restituire, tuttavia, passa attraverso un percorso di ricerca e scoperta che porterà Caterina ad approcciarsi a quella che è forse l’unica forma di perdono possibile e che passa attraverso la conoscenza e l’ascolto.

Il modo di volermi bene della mamma è stato così simile a una stanza piena di vento. Le porte che sbattono, le finestre spalancate, che franano a terra. Ora me ne rendo conto. (p. 245)

Nonostante Coragrotta appaia all’inizio della storia come un luogo inquietante e respingente, infatti, ci accorgiamo presto insieme a Caterina che il paese cela i suoi segreti – o almeno una parte – con meno gelosia di quel che si potrebbe pensare: per sapere la verità basta fare le domande giuste e, parte più difficile, fidarsi delle risposte ricevute.

Giovagnoli conduce la sua protagonista attraverso questo percorso di catarsi con una scrittura curata e dolorosa, che insiste sulle parole del cibo e della terra come mezzi indispensabili per parlare del corpo. La ricerca di Caterina viene condotta con rigore quasi scientifico, ma anche con un abbandono fiducioso a quello che è vero e basta e non può essere messo in discussione: quasi come se accogliere ciò che non si capisce fino in fondo fosse l’unico modo per tenerne sotto controllo il potenziale distruttivo.

Loreta Minutilli

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