Ambigue apocalissi: rileggere Dissipatio H. G.

Dissipatio H. G., Guido Morselli
(Adelphi, 1977)

Di Guido Morselli non si parla mai abbastanza.
L’Ircocervo ha ricordato l’autore bolognese in più occasioni; ora che, nel 2022, ricorre il centenario della sua nascita, l’intenzione è quella di tornare a riflettere sulla sua produzione, soffermandosi in particolare su una (ri)lettura della sua ultima opera, Dissipatio H. G. (le lettere puntate stanno per humani generis).
Scritto pochi mesi prima del suicidio e pubblicato poi postumo nel 1977 per Adelphi, il romanzo si presta ad un’attualissima interpretazione secondo la prospettiva della critica ecologica, che considera i punti di incrocio tra produzioni letterarie ed ecosistemi entro cui si inscrivono, o di cui scrivono.

In Dissipatio H. G. l’autore immagina un mondo svuotatosi di ogni presenza umana, dove si aggira solo un personaggio: «il Superstite, l’escluso o il prescelto, l’Ex-uomo». La narrazione si spalanca proprio sulle reazioni attonite del protagonista di fronte agli effetti di una catastrofe inspiegata che ha causato il dissolvimento del genere umano nel giro di una notte. Si scoprirà presto che il momento in cui è avvenuta questa «volatilizzazione» coincide con la notte in cui il protagonista aveva deciso di suicidarsi; poi però ci ripensa, e torna svogliato alla sua vita.

Nel rientrare al suo villaggio percepisce il silenzio di ambienti disabitati e spettrali. Se in un primo momento può almeno appigliarsi al dubbio fiducioso che da qualche parte, nel pianeta, la situazione sia diversa, ben presto la sua angoscia si globalizza e si insinua in lui il sospetto che il fenomeno sia planetario, cioè che l’intera specie umana si sia sublimata.
Per tutto il romanzo, il lettore non ascolta altro se non il cerebrale monologo della voce che dice io, e che non può che parlare di sé e solo di sé:

«Ormai la mia storia interiore è la Storia, la storia dell’Umanità. Io sono ormai l’Umanità, io sono la Società (U e S maiuscole). Potrei, senza enfasi, parlare in terza persona: «l’Uomo ha detto così, ha fatto così …». A parte che, dal 2 giugno, la terza persona e qualunque altra persona, esistenziale o grammaticale, s’identificano necessariamente con la mia. Non c’è più che l’Io, e l’Io non è più che il mio. Sono io» (p. 31)

Il protagonista è obbligato a un rimodellamento delle sue stesse strutture mentali e di quello che è il comune modo con cui l’uomo si serve del linguaggio: protendendosi sempre verso un destinatario, anche quando materialmente assente. Saltano così in aria i ponti dell’intersoggettività, ma non per questo l’ultimo essere umano sulla Terra rinuncia a raccontare la sua storia, seppure intrappolata nel suo solipsistico punto di vista, orfano del confronto con gli Altri.

In alcuni appunti preparatori del romanzo, che poi l’autore scartò, il protagonista si qualificava come uno scrittore fallito e incompreso, che aveva investito anni di energie nel lavorare a un’opera intitolata proprio Dissipatio humani generis. è chiaro l’effetto da myse-en-abyme o gioco di specchi che si ricrea, per cui Morselli proietta anche se stesso dentro l’opera – lui che aveva alle spalle una trafila di reiterati e frustranti rifiuti editoriali- ma più interessante ancora di queste piste autobiografiche è la concezione fallimentare della comunicazione narrativa in sé, che non può rivolgersi a nessuno perché non trova nessuno in ascolto.

In questo senso, il romanzo si fa rappresentazione di un vero e proprio paradosso: l’intento di raccontare l’incrinarsi della fiducia nella parola letteraria, ma dall’interno, servendosi comunque della letteratura per dire l’agonia del pianeta così come l’uomo l’ha conosciuto e foggiato: «In quanto espressione linguistica, il discorso apocalittico appartiene ancora interamente al mondo attuale. L’universo culturale al quale apparteniamo può essere solo narrato dal suo interno»[1].

Infatti, malgrado tutto, il linguaggio rimane per l’uomo l’ultima arma di «resistenza antropologica[2]» in una dimensione post-umana, per quanto ora l’Ex-uomo debba provare reinventare le leggi della comunicazione. La sua è una lingua che vuole sopravvivere e salvarsi, pur ammettendo di parlare unicamente per se stessa perché, come diceva Calvino di un altro autore che pure lavorava per ‘via di levare’ raschiando la parola letteraria fino al midollo, ossia Samuel Beckett: «[…] per esaurite che siano (le storie), per poco che sia rimasto da raccontare, si continua a raccontare ancora»[3].

Nel romanzo di Morselli si possono ritrovare, retroattivamente, alcune componenti proprie dell’ecofiction contemporanea, sia dal punto di vista dei contenuti che di vari aspetti formali.
In relazione agli elementi della trama, per quanto Dissipatio sia del ‘73 e contenga quindi i più urgenti sentimenti della modernità, in verità è universale il modo in cui l’autore ha raccontato una paura atavica che insegue l’uomo di ogni tempo: paura che un giorno finisca non il mondo, bensì il senso che l’uomo dà al suo stare al mondo.
A questo proposito occorre chiedersi: che tipo di fine-del-mondo è quella messa in scena nel romanzo di Morselli? È lo stesso protagonista, col suo fare disilluso e polemico, a tentare una risposta:

«Così vado commentandomi, esorcizzandomi, la fine del mondo. O quel tanto di analogo che si svolge sotto i miei occhi.
La fine del mondo?
Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi» (p. 54)

È quindi il mondo culturale, plasmato artificialmente dall’uomo a sua immagine e somiglianza, ad essersi dissolto. Sopravvive invece la natura, la quale sembra aver riconquistato lo spazio che provvisoriamente aveva concesso all’umanità. Eppure al superstite, rimasto a godersela nella sua rigenerata e maestosa grandezza, non riesce neppure di pensarla, una natura che non sia con-divisa – o meglio contesa – con Altri:

«Per vivere poeticamente la natura, mi occorreva qualcuno cui contenderla, qualcuno da tenere lontano? Sconfortante: la natura era bella e tremenda, ma in funzione a-sociale. Supponeva, negativamente, l’uomo. Io la volevo inviolata, però violabile. Mi sto domandando: per goderla c’era bisogno dei cartelli «Vietato l’ingresso»?» (p. 98)

Non si può non intravedere in filigrana a questi ragionamenti una sottesa denuncia al modo in cui lui e i suoi simili erano abituati a trattare l’ambiente: attraverso le lucide elucubrazioni del suo personaggio, l’autore pennella l’immagine di un Antropocene stanco, che si sbarazza finalmente dell’uomo e del modo prevaricante in cui ha usufruito (o abusato) degli spazi del pianeta.

Nel tessuto formale della trama si incontrano alcune impalcature narrative tipiche del discorso ecologico: il motivo della rivelazione (la deflagrazione della catastrofe che ha innescato la situazione narrativa) e ipercausalità o causalità paradossale (il concatenarsi di sequenze causa-effetto che si dipanano attraverso indizi, teorie e ragionamenti che tentano di far chiarezza sull’accaduto).
Per quanto le si individui in Dissipatio, però, queste categorie appaiono nella forma di pure ombre, svuotate, erose dall’interno: l’evento è sì avvenuto, ma in sordina, senza fragore, esplosioni o epifanie; dall’altro lato, il protagonista non può servirsi di alcun un paradigma indiziario con cui collegare i segni o suffragare le sue ipotesi. Qualsiasi supposizione di causalità è depistante e bugiarda.

Nel suo verificarsi l’evento della fine non ha rivelato niente, il romanzo è tappezzato da aperture che danno sul nulla: si pensi al dipinto di Magritte, Le poison (1939), emblematicamente scelto per la copertina di una vecchia edizione del romanzo, con la sua porta schiusa sul vuoto del cielo.
L’apocalisse non ha più i connotati tremendi e profetici di un accadimento divino; anzi, paradossalmente il suo carattere soprannaturale ora è immanente, in quanto conseguenza incontrollata delle azioni dell’uomo.

Tutte le possibili illazioni sulle cause dell’accaduto sono destinate a collassare al cospetto dell’imprendibilità del fenomeno, che nega la sua stessa esistenza, dato che è svanimento, polverizzazione, buco nero. Allo stesso modo, non trovano riscontro certo neppure le supposizioni degli studi critici che hanno provato a scorgere dietro il fenomeno le sue radici di senso, intercettandovi ad esempio lo spettro della catastrofe atomica, l’istinto di morte freudiano o ancora fantasmi autobiografici. Niente di tutto ciò viene a galla in superficie nel testo, né si erge a Big bang scatenante di quanto avvenuto la notte del 2 giugno nel romanzo: l’evaporazione è un sintomo che rigetta la diagnosi, non lascia traccia delle cause organiche che l’hanno generato.

Del resto «le narrazioni più perturbanti sono quelle in cui la catastrofe non viene rappresentata mentre accade e in cui cause e dinamiche del disastro non vengono esplicitate. Il rifiuto dell’esorcismo, disattivando la funzione consolatoria e deresponsabilizzante su cui si fondano le rappresentazioni apocalittiche più banali, può esprimere invece una riflessione ecologica complessa»[4]. Ed è proprio quella riflessione ecologica complessa che il romanzo di Morselli contribuisce a fertilizzare, oggi che la tematica ecologica ha acquisito nel nostro orizzonte di valori una consistenza incandescente e urgentissima, giacché ha saputo immaginare ante litteram l’Antropocene che collassa su se stesso.

Di recente, l’editoria contemporanea ha conosciuto un proliferante moltiplicarsi di opere che si dicono distopiche o post-apocalittiche, talvolta scimmiottando un po’ i tradizionali schemi del genere, saturando un immaginario già densissimo di modelli; si alternano così toni consolatori a posticce grida di denuncia. Interessantissimo notare invece che Dissipatio H. G., col suo finale aperto e il suo atteggiamento lucidamente problematico, si posiziona in maniera ambigua fra la condanna e l’utopia rigenerante. La sua lettura ci interpella e assedia, scuce i nostri sistemi di pensiero obbligandoci a proiettarci in un pianeta spacciato, ad attraversare una porta al di là della quale – forse- c’è solo un cielo deserto.

Viviana Veneruso

[1] F. Mussgnug, Finire il mondo. Per un’analisi del romanzo apocalittico italiano degli anni Settanta, in «Contemporanea» 2003, N.1.

[2] M. Lino, L’apocalisse postmoderna tra letteratura e cinema: catastrofi, oggetti, metropoli, corpi, Firenze, Le Lettere, 2014.

[3] I. Calvino, Lezioni americane, Milano, Mondadori, 2012.

[4] N. Scaffai, Letteratura e ecologia, Roma, Carocci, 2017.

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