Cocciamatte, Scarciafratte e vita eterna

Esiste una teoria degli anni Settanta piuttosto controversa, ma parecchio affascinante, secondo cui la schizofrenia non sarebbe altro che il residuo delle voci degli dèi che in tempi molto antichi la nostra mente era abituata a percepire. La coscienza per come la intendiamo oggi, dunque, non sarebbe una caratteristica innata, sorta in noi grazie a millenni di evoluzione, ma una forma mentis socialmente appresa, che col tempo è diventata normalità.1

La figura del matto come toccato dal dio, invece, è ancora molto presente nella nostra letteratura e in tante produzioni della nostra industria culturale. Spesso, però, questo tropo narrativo rischia di ridursi a luogo comune retorico, non di rado con dei fastidiosi risvolti pietistici; e questi personaggi, nella maggior parte dei casi, mancano di credibilità, di coerenza nella loro pazzia, e di una lingua adeguata con cui darle voce.

Una piacevole eccezione agli errori di cui sopra è costituita, invece, dall’universo di Remo Rapino. Due i suoi romanzi strettamente legati: Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax, 2020) e Cronache dalle terre di Scarciafratta (minimum fax, 2022). Sono l’uno la versione schizofrenica dell’altro, entrambi toccati da una follia che non si sforza nemmeno per un attimo di essere divina, e che proprio per questo lo è.

La moltitudine di voci, anzitutto, ha un’origine assolutamente concreta e prosaica: sale dalla terra, dalla profondità della crosta terrestre e ha un epicentro nascosto, montagnino, che s’inerpica da qualche parte nell’Italia centrale. Il paese di Bonfiglio Liborio non è precisamente individuabile, mentre Scarciafratta non esiste affatto («una Macondo d’Abruzzo», è chiamata giustamente); ma i personaggi di Remo Rapino mantengono una memoria che poco ha a che fare con la precisione dei luoghi, delle date o delle durate feriali, e tutto c’entrano invece col carico emotivo dei ricordi.

La Vita di Bonfiglio Liborio, compresa di morte e miracoli, è la narrazione in prima persona di un’esistenza in cui nulla si attiene alla misura cui dovrebbe: Liborio è un cocciamatte, una “testa pazza”, che grida sempre troppo o sta troppo zitto, si agita troppo, sente troppo, piange troppo, ride troppo. Nasce in mezzo ai due conflitti mondiali come uno che non sa decidersi se vivere in tempo di guerra o in tempo di pace, e il suo destino sembra essere quello di perdere tutto, sempre – padre, madre, casa, patria, senno.

Ma siamo sicuri che quest’ultimo poi serva davvero?

Mò, quelli là, gli altri, tutta sta gente di sto cazzone di paese, vanno dicendo che sono matto. E mica da mò, che me lo devono dire loro, quelli là, gli altri, tutta la gente di sto cazzone di paese che sono matto. Pure io lo so, e sempre ci penso, notte e giorno, d’inverno e d’estate, ogni giorno che il Padreterno fa nascere e morire, con al luce e con lo scuro, ci penso, che c’ho sempre pensato per vedere di capire come mia sta coccia mia da quasi normale s’è fatta na cocciamatte, tutta na matassa sgarbugliata fuori di cervello.2

La narrazione in prima persona di Bonfiglio Liborio è densissima, concitata, come deve esserlo il susseguirsi violento di sensazioni e pensieri del suo artefice. Liborio vede e sente tutto, e quel che è più importante raccoglie tutto, lo tiene con sé: la sua mente assomiglia al momento esatto in cui una bomba viene detonata, ma senza che l’esplosione avvenga mai per davvero. È un flusso di pensieri multidirezionale e spugnoso, in continua tensione, che sembra l’unico capace di cogliere il mondo e i suoi abitanti nei tratti che veramente importano.

Lo stesso fa il suo gemello ideale, Mengo, il protagonista delle Cronache: nato in un minuscolo paese montagnino, Mengo vede sparire uno dopo l’altro tutti i compaesani, portati via dalla guerra, dalla vecchiaia, dal lavoro, dalle catastrofi naturali. Proprio come Bonfiglio Liborio, ormai anziano nella sua casa e nella sua vita diroccate, cerca di alleviare la solitudine con i fantasmi di chi le ha popolate, anche Mengo danza coi fantasmi e li fa parlare. Un’intera città di macerie torna a popolarsi grazie alla sua sola potenza schizofrenica; ma Mengo fa più di Liborio, forse è un matto più metodico e deciso, e dunque non si limita a parlare ma decide di scrivere: grazie a un vecchio quaderno anagrafico, reinventa e ricostruisce le vite di tutti i suoi antichi concittadini.

Mi saliva alla mente che dovevo fare qualcosa che, forse, dovevo ricopiare per bene tutta quella storia che era passata dalla vita alla morte, e farla ritornare ancora alla vita, con qualche trucco di scrittura, per quel poco he ci sapevo mettere mano alla penna. Che se ridavo una aggiustata alle parole e le riaffilavo giusto giusto, potevo far riparlare i morti, come se tornavano a Scarciafratta dopo un lungo viaggio.3

L’atto del raccontare non è mai fine a sé stesso nei romanzi di Rapino. Bonfiglio e Mengo passano la vita ad assorbire le esperienze e le sensazioni cercando di non filtrarne nemmeno gli aspetti più cruenti, più velenosi, più tossici; e quando la loro esistenza volge al termine, restituiscono tutto al mondo, strizzandosi come spugne per far uscire tutto quello che hanno immagazzinato, finché non resta più nulla e loro stessi inevitabilmente ne periscono. Solo dei matti si prosciugherebbero pur di restituire tutto quello di cui si sono cibati; solo dei matti sarebbero in grado di farlo così bene.

Oltre agli atti, Mengo e Bonfiglio di somigliano anche nelle parole. Una delle più grandi abilità di Remo Rapino, difatti, è la sua dimestichezza con un tipo di linguaggio che risulta assolutamente adeguato a queste narrazioni di follia silvestre ed emotiva. I periodi a volte evocano il modo di parlare dei bambini, che si sforzano di infilare quante più parole possono una in fila all’altra prima che sia il momento di riprendere fiato. A volte, quando scrive dei suoi personaggi, Rapino sembra quasi parlare del suo stesso modo di scrivere carico e solido:

Una parlata senza virgole e senza punti, tutto un rotolamento di parole, come se volesse recuperare il tempo perduto, riempire i silenzi di troppi anni, come se volesse riprendersi tutte le cose non dette, tutte le parole lasciate in fondo alla valigia di cartone nel suo unico viaggio […].

Mengo parlava da solo, anche ad alta voce, tra un giro di testa e l’altro, ogni giorno del tempo suo, senza cambiare manco una virgola, non una pausa né un sentimento nuovo, strologando uno scandire immutabile di parole, che arrochivano e sibilavano fino a somigliare sempre più al verso notturno della civetta.4

Non è affatto comune che in un romanzo contemporaneo vengano dedicati tempo e cura al lavoro sulla lingua: sembra siano in molti ad aver dimenticato che l’involucro che avvolge la storia è il suo primo elemento costitutivo, e che stile e lingua sono due tratti ben diversi da maneggiare. Non tutti potrebbero (né dovrebbero) scrivere come Rapino. Ma è necessario che ve ne sia uno, di lui, a portare questo linguaggio gocciolante di percezioni nella narrativa.

Potersi immergere nell’interiorità di questi suoi personaggi è ritornare a un tipo di umanità che è ritrovabile, probabilmente, solo nei libri: un’umanità al confine tra la contemporaneità e la fine degli ideali. In questi viaggi non è importante custodire informazioni, ma sensazioni e identità. Mengo restituisce il nome a tutte le persone che ha conosciuto perché sa quanto è importante preservare l’emotività, più che la precisione; e Liborio fa lo stesso, onorando la propria follia che gli ha permesso di vivere la vita con una profondità e un’intensità che per gli altri sono solo ipotizzabili.

Esiste questa idea romantica di alcuni scrittori che girano per tutta la vita attorno a una storia. Lo si dice anche di certi registi, o pittori. Se ci si è dedicati a raccontare, insomma, viene in mente che a volte questo mestiere lo si sia scelto perché ce n’era una in particolare di storia che andava narrata, ed è impossibile fermarsi finché non ci si riesce.

Ecco: Remo Rapino forse non insegue una storia da raccontare, ma un personaggio da far parlare. E dato che si tratta di una figura a cui è toccato di esercitare il potere del racconto per resuscitare, ricordare e custodire, è un personaggio a cui, oltre al peso della divina follia, spetta anche il privilegio di una vita eterna.

Emma Cori

1 Julian Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della conoscenza, Milano, Adelphi 1984.
2 Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, Roma, minimum fax, 2020, p.5.
3 Cronache dalle terre di Scarciafratta, Roma, minimum fax, 2022, p. 68.
4 Ivi, pp. 13-19.

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