I nomi propri, Marta Jiménez Serrano
(trad. Olga Alessandra Barbato – Giulio Perrone editore, 2022)
Se fosse una stagione, sarebbe l’estate. Se fosse un cibo: il riso giallo. Se fosse un odore, quello del cloro. Se fosse un verbo: crescere; dare nomi; accarezzarsi i capelli e aspettarsi. I nomi propri, debutto nella narrativa dell’autrice spagnola Marta Jiménez Serrano, sarebbe tutto questo, se non fosse anche, e soprattutto, un romanzo: un originale e coinvolgente romanzo di formazione, che esplora la scoperta dell’identità proprio a partire dalla capacità di dare un nome alle cose e alle persone, costruendo dei riferimenti propri, un po’ come nel gioco del “se fosse”.
Quello del “se fosse” è un gioco di bambina che Marta – la protagonista settenne che condivide il nome con l’autrice – fa con Belaundia Fu, la sua migliore amica, quella sensata, infallibile, ideale, quella che la accompagna per tutta la vita, o quasi: la sua amica immaginaria. In una trama che non sorprende per la singolarità delle sue vicende, dal momento che ripercorre la quotidianità della protagonista dall’infanzia alla prima età adulta – cosa che, si badi bene, non implica un peccato di piattezza, ma anzi facilita l’immedesimazione del lettore in episodi sapientemente selezionati dell’esperienza comune – la cosa che più colpisce e ammalia è la tecnica narrativa: la scelta di scrivere in seconda persona singolare, il tu che proprio Belaundia Fu rivolge a Marta.
In un insolito e talvolta straniante impasto di piani temporali, il lettore segue ammaliato la voce di Belaundia Fu che, dal futuro, ripercorre gli eventi del passato, che è il presente di Marta, facendo spesso anticipazioni di quello che farà, che penserà, che imparerà. Questo, non senza una punta di invidia: chi non vorrebbe avere una voce interiore che ci rassicura, che è sempre dalla nostra parte, che non giudica ma ci capisce intimamente? Belaundia Fu è lì quando Marta, nell’estate dei suoi sette anni, organizza spettacolini a casa della nonna, l’Orto, reclutando le cugine e i fratelli – Simba, la sorella di mezzo, e il bambino, il più piccolo, che se fosse un cibo sarebbe le rosquillas – e rimane piantata in asso dai suoi piccoli attori proprio nel giorno del debutto di fronte alla famiglia. Belaundia Fu è lì quando Marta cade dall’altalena che il nonno non aveva sistemato e si riempie di ferite. Belaundia Fu è lì e Marta si siede a parlare con lei sull’erba, sotto le stelle, prima di tuffarsi dal trampolino in piscina: perchè quando sei piccola – ma piccola rispetto a cosa? – nessuno ti prende sul serio a parte la tua amica immaginaria. E la nonna.
L’hai detto chiaramente: «Belaundia Fu è invisibile». Però per qualche motivo strano loro pensano che tu mi vedi, come se fossi una bambina posseduta che vede spiriti e fantasmi. E quello no. Ti dà fastidio. Perché tu puoi essere particolare o difficile da capire, ma non sei idiota, non vedi cose che non esistono. «Ma come faccio a sapere com’è Bela se non l’ho mai vista?». (p. 55)
Poi, l’adolescenza: arriva d’un tratto e ha un nome. Charlie. Se fosse una bevanda, sarebbe l’arsenico. Un sentimento: il tradimento. I confini del mondo si fanno più vasti di quelli dell’Orto della nonna, i piedi, le mani, il seno crescono – ma sono sempre i piedi, le mani e il seno di Marta – e le parole si moltiplicano: ora ci sono la scuola, gli amici, il sesso, l’insicurezza, l’amore. Parole che sono contenitori da riempire, parole per dire quello che non si vede, parole che si possiedono come chiavi di cui finalmente si trova la giusta serratura, e infine parole che si capiscono solo quando si perdono. E in questa babele di significanti e significati che è il diventare grandi – ma grandi rispetto a cosa? – il dialogo con Belaundia Fu si fa più conflittuale – lei non si sarebbe mai innamorata di Charlie.
Io sono solo un’altra voce, o varie voci riunite, ma mi hai dato un nome e dandomi un nome mi hai dato importanza, e da questa importanza ti parlo, sensata, diurna, equilibrata, allegra, ideale, infallibile. Per qualche motivo hai deciso che tutti questi aggettivi hanno un altro nome, che non possono avere il tuo. Li hai chiamati Belaundia Fu, e io ti chiedo almeno di chiamarmi Bela […]. (p. 83)
Attraverso una tecnica narrativa originale e sviluppata in maniera brillante, Serrano dimostra una spiccata sensibilità nell’intercettare una delle dinamiche dell’adolescenza per antonomasia: mette nero su bianco quel dialogo faticoso e affascinante tra sè e i vari sè che ognuno contiene in potenza, la ricerca della propria identità tra le varie possibili. E «non è una mera questione di vanità», sottolinea Bela: il problema è che è facile perdersi mentre decidi «chi sei, se puoi essere chiunque» (p. 177). Marta cerca Marta tra le Marte bisillabe (buona, triste, tesa), trisillabe (fedele, caoace, meschina) e quadrisillabe (spensierata, disperata, profetica). Tra tutte queste possibilità, Bela rappresenta quella più ideale, perfetta, consapevole: quell’idea del sè che in adolescenza si persegue e si rifugge allo stesso tempo, quella voce che si ha paura di ascoltare perchè significa accogliersi, quell’immagine che non si vuole guardare per timore di vedersi, conoscersi e darsi un nome.
Se quello dell’identità è il tema predominante del libro, esso va di pari passo con quello della solitudine. Avere un’identità presuppone avere coscienza della propria distinzione da altre entità, una consapevolezza che si esercita con la parola ma anche col corpo. Interessante è vedere come l’identità di Marta si va formando nel rapporto con le persone che, nel tentativo di definire, definiscono lei stessa. La madre che la rende figlia, ma che allo stesso tempo, a ben pensarci, è stata ed è altro (moglie, figlia, donna). L’uomo che, oltre ad essere suo padre, è anche un dottore. La nonna che la definisce come nipote, ma ha avuto anche una sua storia, passando anzi la maggior parte della sua vita senza essere sua nonna. Dunque, chi è Marta quando si accorge che il mondo non esiste in relazione a lei?
Con una spiccata sensibilità poetica e una scrittura che riesce ad arrivare nell’intimità del lettore – Belaundia Fu potrebbe assomigliare alla vocina interiore, se non di tutti, di molti; e l’espediente del tu fortifica questa sensazione – Marta Jiménez Serrano costruisce un romanzo che esplora il legame tra la crescita, la conoscenza di sè e del mondo, e la ricerca di una propria voce con cui reclamare il proprio spazio, che sappia definire la propria esistenza in molteplici forme che cambiano, si muovono e vivono attorno allo stesso centro di gravità. E il romanzo stesso matura in questa direzione assieme a Marta, che a un certo punto si separa da Bela, al cui posto compare un documento Word, uno schermo bianco.
Se fosse un genere, I nomi propri non sarebbe autofiction. Eloquente in questo senso è la citazione di Virginia Woolf che sfoggia in epigrafe: «Inutile dire che niente di ciò che vi racconterò è vero. […] la parola “io” è soltanto una comoda designazione per nominare qualcuno che non esiste realmente.» I nomi propri è un paziente e tenero viaggio alla scoperta di chi già si è, un lungo esercizio di ascolto che fa riflettere anche sulla necessità del lavoro di scrittura – per arrivare a definirsi attraverso la prima persona singolare. Per riuscire a darsi un nome proprio.
Dovrai accettare una buona volta che sei sensata, allegra, ragionevole ed equilibrata a modo tuo, o che non lo sei per niente. Ma non è giusto che Bela batta tante Marte. (p.188)
Beatrice Palmieri