Cuori di nebbia, di Licia Giaquinto
(Terrarossa Edizioni, 2022)
Fin dal titolo, l’ultimo romanzo di Licia Giaquinto irradia suggestioni che non possono che provenire da un territorio preciso, col suo cielo affogato nel grigio e il terreno trapuntato di metodiche geometrie di campi: si tratta, naturalmente, della Pianura Padana.
Per i personaggi che popolano la storia essa si rivela sì una natura matrigna, ma è anche il luogo in cui sono stabilmente conficcati, da sempre, come filari. In altre parole, l’unico luogo che sappiano chiamare casa.
La storia è ambientata nei tardi anni Novanta a Bruciata, un paesino nel cuore della via Emilia, tra Modena e Bologna.
Il ruolo dell’ambiente non si limita a quello di fondale scenografico, né l’autrice si accontenta di pennellare un bidimensionale quadretto impressionistico. Piuttosto, il paesaggio sembra alitare la sua presenza – dal peso impalpabile e soggiogante a un tempo – su tutti i personaggi, le cui vite si arrabattano tutte negli immediati dintorni, tra casolari dagli intonaci scrostati e appezzamenti di terra coltivati con la tenacia ossuta ma caparbia della tradizione. Quella è l’attività di famiglia, e non si può che raccoglierne le redini e farsi contadini, se si è nati figli di contadini.
Questo è perlomeno uno dei punti di vista tra cui la narrazione si sposta.
Alternandosi, i capitoli mettono insieme un coro polifonico di personaggi, tra cui si incontrano Filippo e Mirella, due coniugi che non si sono mai amati e adesso cercano altrove quel pizzico di felicità che l’amore dovrebbe assicurare. Poi Natascia, una giovane russa che in Italia per sbarcare il lunario fa la prostituta, ma le sue ambizioni sono altissime e la sua determinazione spietata; Francesco, un giovane napoletano che, inguaribilmente innamorato di un fantasma del suo passato, vaga nel tentativo disperato di ritrovarlo, in questi luoghi che a volte sembrano olografici, infestati solo da ombre e spettri. Ancora, c’è Nicola, un guardone che si aggira per la campagna padana affamato di scene da ‘scippare’ all’intimità altrui.
E altri uomini e altre donne ancora convivono con quelli qui nominati, assiepandosi in un pulviscolo di personaggi che, a ben guardare, incagliano i passi in un’orbita identica: il sentiero prevede magari deviazioni, ma non si può che percorrerlo tutto fino in fondo, per poi scoprire con remissiva delusione che alla fine del cammino non c’è un bel niente. Il traguardo è un dirupo vuoto in cui i piedi precipitano, oppure ha la forma di una melma paludosa in cui s’impantanano i passi.
Invincibilmente attraccati a una sorta di ‘ideale dell’ostrica’ di verghiana memoria, gli uomini e le donne che appartengono a quei luoghi, o che da quei luoghi sono ammaliati come per effetto di un incantamento, non hanno chance: obbediscono al proprio destino con fatalismo e rassegnazione.
Le loro storie, attraversate singolarmente, verso la fine convergono e s’incontrano con esiti talvolta impensabili, dando origine a una grottesca ‘tragedia degli errori’.
Molto si scopre, della costruzione e i retroscena del romanzo, dalla testimonianza dell’autrice nella postfazione; in particolare si apprende della sua vicenda editoriale frastagliata: in un primo momento pubblicato per la Flaccovio, piccola casa editrice, il testo ebbe una distribuzione scarsa e una visibilità trascurabile. Dopo l’uscita de La ianara per Adelphi, però, la stessa casa editrice manifestò interesse per Cuori di nebbia e considerò di ripubblicarlo; in ultimo il progetto si arenò, per un ripensamento tardivo di Calasso.
Oggi quindi, per Terrarossa edizioni, Cuori di nebbia vive la sua seconda possibilità.
La postfazione si fa occasione, per l’autrice, anche per ripercorre la genesi creativa della sua storia: in partenza, i suoi personaggi prendono vita in maniera scriteriata, orfani di un’idea, un progetto in cui coabitare, e le fanno visita come morti richiamati nel regno dei vivi dalle cantilene di una seduta spiritica. Mentre poi il cantiere del romanzo va costituendosi, un ruolo sostanziale viene rappresentato dall’esperienza dell’autrice come insegnante delle scuole serali della ‘Bassa’.
Da qui forse trae le sue ragioni la lingua con cui i personaggi rimuginano e si raccontano: il loro parlato è sporco, punteggiato di precipitati dialettali e scorie di un italiano regionale che è espressione diretta di un precipuo modo di vedere il mondo.
Nel comune immaginario, il racconto della provincia padana – col suo orizzonte di alberi di ciliegie, architetture scrostate e umidità che stipa l’aria – rimanda immediatamente all’ombelico dell’opera di Gianni Celati, narratore dei ‘costumi degli italiani’ che quelle zone le hanno abitate, da sempre, con la loro pragmatica, sbrigativa saggezza. E ancora, insieme a Celati si pensa a Luigi Ghirri, che ha ritratto il paesaggio sensibilità prensile della sua poetica fotografica.
L’opera di Lidia Giaquinto è un riattraversamento, ma anche una propaggine ulteriore di quei sentieri già tracciati. Trae forza tonificante dalle narrazioni passate, approdando alla fine a un noir sui generis in cui ogni voce che si giustappone alla precedente contribuisce al racconto non facendo chiarezza, ma intorbidando le acque e lasciando nuove ditate di fuliggine sulla superficie delle cose.
Viviana Veneruso
Immagine di copertina di Viviana Veneruso