Il conflitto generazionale in Gay bar

Gay Bar. Perché uscivamo la notte, Jeremy Antherton Lin
(Minimum Fax, 2023 – trad. S. Reggiani)

Deve significare qualcosa condividere ricordi simili di episodi in cui ti hanno fatto sentire meno di, la specifica umiliazione inflitta da chi non sopporta il polso molle e la parlata vezzosa, le continue minacce dei bulli, la speranza che ci sia sempre qualcuno di più gay nella stanza a catalizzare l’attenzione. Quando una persona etero dice “Sono fondalmentalmente gay”, il mio primo pensiero è: “Ma la parte del bullismo te la sei saltata”.

Gay bar non è solo un tour dei più celebri e frequentati gay bar dell’Inghilterra e degli Stati Uniti, dagli anni ’60 a oggi, tra Los Angeles, New York e Londra. Esordio del saggista Jeremy Atherton Lin, il libro racchiude un autentico viaggio nella storia omosessuale e queer accompagnata da un’analisi accurata, sociale, storica e antropologica, di chi ha potuto viverla in prima persona.

Atherton Lin ricostruisce la storia dei locali gay, primo luogo d’incontro della comunità LGBTQIA+, in cui l’identità e la cultura omosessuale è nata e si è formata, ricucendo insieme la storia del movimento di liberazione omosessuale attraverso un punto di vista soggettivo, personale, trasformando la storia in racconto biografico, raccontandoci le proprie esperienze vissute nei rapporti, nelle manifestazioni e negli avvenimenti contestualizzati in quei luoghi e in quei tempi. Fanno parte della bibliografia una rassegna di articoli di giornali contemporanei agli eventi, analisi e dati sociali, oltre a una serie di saggi di critica omosessuale, di autori fondamentali come Paul B. Preciado e Leo Bersani.

Il punto d’osservazione è sia interno che esterno: è il punto di vista di una persona che fa parte di quella realtà e allo stesso tempo ne osserva i contorni, arricchendo la ricostruzione storica di aneddoti personali, dettagli privati e gossip. Il suo è un approccio nuovo e fresco alla saggistica, se vogliamo molto queer: lo stesso Preciado, nel suo Testo Tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica (Fandango, 2015), ha alternato capitoli di pura filosofia critica a racconti di vita personale e sessuale esperiti in prima persona. Da sottolineare è però il fatto che nel libro del filosofo i due contesti rimanevano ben separati e distinguibili, mentre la novità di un testo come quello di Gay bar è la compenetrazione e confusione dei due linguaggi, che lo premia in sperimentalità, rischiando però al contempo in alcuni passaggi di mancare di chiarezza.

Per evincere il contesto storico, sociale, politico di un gay bar, l’autore perlustra la clientela che lo compone e i tipi di rapporti che si creano, permettendoci di viverli e osservarli dall’interno, descrivendoci la sua esperienza, prestandoci i suoi occhi e la sua pelle. Il suo è a tutti gli effetti uno sguardo antropologico, che indaga senza sosta, scrutando gli ambienti e i potenziali partner davanti a lui, osservando oltre al loro corpo i loro atteggiamenti, le loro attitudini sociali e il loro collocamento all’interno di quel dato contesto.

Nella sua dissertazione non manca di focalizzarsi su particolari che risulterebbero mancanti se non si fosse stati lì in prima persona: le scelte di arredamento, di musica, gli ospiti delle serate. L’aspetto architettonico, ci insegna l’autore, può indicare la differenza tra un locale che ospita serate regolamentate secondo le norme legislative del periodo, con cui la società cercava di limitare pesantemente la comunità, dalle pareti vetrate ben trasparenti che dichiaravano di non dover nascondere nulla, e le costruzioni dei locali “barricata”, che, rischiando episodi di violenza e di retate della polizia, faceva strappi alle regole nell’ombra di pareti prive di finestre.

In questo anche l’avvento dell’AIDS e dello stigma sociale derivato, che costituisce un vero e proprio spartiacque per la storia omosessuale di qualsiasi Paese, hanno contribuito allo stesso cambiamento dei codici estetici dei locali: da stanze piene di fumo, senza circolazione d’aria, dall’estetica trasandata, punk, sporca, filthy, per scelta molti bar iniziarono a prediligere invece spazi all’apparenza più puliti, aerosi, ampi e luminosi, come per comunicare all’esterno una sensazione di maggiore sicurezza.

L’autore interpreta queste caratteristiche per avviare una riflessione più profonda, sui due principali schieramenti del grande conflitto generazionale interno alla comunità LGBTQIA+: assimilazionisti da una parte, eredi del movimento di liberazione omosessuale, ovvero coloro che lottano per il riconoscimento e l’egualità da parte della società (diritti civili, adozione, leggi anti-discriminazione); e antisociali dall’altra, ovvero dell’idea di non dover giustificare la propria identità o fare in modo che venga socialmente compresa o accettata, ma con l’intenzione piuttosto di costruire un tipo di società nuovo, diverso, libero dal regime eteropatriarcale, dall’istituzione coercitiva del matrimonio, dai binarismi e da qualsiasi categoria discriminante.

Jeremy descrive la complessità di questo conflitto raccontando una delle primissime manifestazioni antisociali alla quale ha partecipato, organizzata dal movimento anti-assimilazionista Gay Shame; un gruppo di giovani rivoluzionari erano scesi in piazza a protestare contro la polizia, la società e anche contro i “vecchi gay”, al sicuro dietro le loro pareti di vetro, integrati a caro prezzo nella società contemporanea.

I gay a favore dello status quo consideravano l Gay Shame una seccatura, una macchia sulla rispettabilità con tanta fatica conquistata. Non gli piaceva che la loro visione della comunità venisse criticata; avevano appena finito di consacrarla in un edificio trasparente.

E ancora:

Avevano un’aria così conformista da farmi vergognare, anche se probabilmente a far vergognare loro erano i disadattati che ballavano in strada. Loro provenivano da un’altra zona della città, una dove il prefisso omo significava davvero stesso. In questo senso i gay shamer erano omofobi. Erano ferocemente individualisti: favolosi, inguardabili, sexy, grassi, un disastro totale. Il loro street party non era un dialogo ma una paternale.

Al termine dell’incontro, i manifestanti iniziano a ballare. Jeremy si unisce alle danze, ma ci racconta del disagio dovuto alla sua ambivalenza: mentre balla con i gay shamer insieme al suo attuale compagno (conosciuto proprio in un gay bar londinese nel 1996), immagina con lui, in contrasto contro le idee antisociali, un futuro in cui si sarebbero sposati, in modo da poter condividere la cittadinanza e vivere insieme negli Stati Uniti. Il suo prossimo libro, Deep house, già annunciato in uscita nel 2025, parlerà proprio della legalizzazione del matrimonio omosessuale e di come ha influito sul suo rapporto e sulle relazioni della comunità.

Nonostante questo, e nonostante i manifestanti conoscessero le intenzioni della coppia, «procurava una certa liberazione ballare in pubblico così, senza criterio né grazia. Sorridevamo ai conoscenti. Nell’aria si respirava la promessa di una subdola invasione alla maniera di San Francisco, come una nebbiolina bianca e luminosa che avanza.»

Sebbene non condanni le nuove tipologie di gay bar, nel suo saggio-racconto Atherton Lin rimpiange le caratteristiche che più amava dei locali adesso diventate anacronistiche: i suoi gay bar erano luoghi in cui tutto poteva accadere, in cui le aspettative erano altissime e mai soddisfatte, ma non era quello il punto: era più la sensazione in potenza ad essere importante; quello che poi finiva per succedere era sempre imprevedibile e, in qualche modo, vitale. I locali gay erano fatti di cliché, di approcci e di scene finte al limite del cringe; un luogo dove si andava “in cerca del rischio”, dell’incontro, di quel momento adrenalinico in cui osservi la pista e pensi a quale persona portarti a letto.

Ora i gay bar sono sempre più sicuri e amichevoli, aperti a qualsiasi clientela e attenti ad evitare ogni possibile forma di disagio e pericolo, a discapito però di quel rischio insito nel cruising che contraddistingueva i gay bar negli anni ’70 e ‘80. Con l’esempio della riapertura del Joiners Arms, un tempo noto locale gay, l’autore mette a confronto il nuovo con il vecchio facendo emergere il salto generazionale. Jeremy Atherton Lin condivide i suoi ricordi di una pratica e un modo di conoscersi e fare esperienza appartenente alla sua generazione e riflette sulle modalità in cui queste sono cambiate negli anni, restituendoci una preziosa testimonianza diretta che sopperisce a un vuoto storico sul movimento e sulla storia della comunità queer.

Davide Lunerti

Immagine di copertina generata dall’AI Imagine Art.

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