Narrare la migrazione: Quando migrano gli uccelli sanno dove andare

Quando migrano gli uccelli sanno dove andare, Usama Al Shahmani
(Marcos y Marcos, 2024 — trad. Sandro Bianconi)

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Quando migrano gli uccelli sanno dove andare è il terzo romanzo di Usama Al Shahmani, ancora una volta edito da Marcos y Marcos. Nato a Bagdad nel 1971, nel protagonista di questo libro, chiamato Dafer, l’autore iracheno riversa molto del suo vissuto personale, in primis la migrazione forzata dal proprio Paese d’origine in seguito alla stesura di un’opera teatrale fortemente critica nei confronti del regime di Saddam Hussein.

Dafer, nato a Bagdad e cresciuto in una cittadina nel sud dell’Iraq, frequenta la facoltà di Letteratura araba a Bassora, a seguito della guerra contro l’Iran, sotto la dittatura. Da giovane di sinistra oppositore al regime, condivide i suoi ideali politici con i suoi coinquilini e con i compagni di corso. Sono anni in cui, chiaramente, avere un pensiero politico diverso da quello del governo è rischioso per la propria persona, anche se non si manifesta pubblicamente il proprio dissenso.

Capita che ci si spaventi per un conoscente troppo conservatore, che minaccia di sporgere denuncia contro i comportamenti che differiscono eccessivamente dai dettami del regime. Capita anche che gli amici spariscano per giorni senza lasciare traccia. Si sa che sono stati incarcerati, e si sa bene che cosa succede agli oppositori nelle carceri irachene. Se i prigionieri vengano rilasciati, però, non sono più gli stessi. Decidono di tagliare i ponti con le loro reti di amici, troppo consapevoli di essere perennemente controllati dalla polizia politica per mettere in pericolo la vita di altre persone.

Quando Dafer scrive Noccioli di oliva, una piéce teatrale che esprime dissenso non troppo velatamente nei confronti di Saddam Hussein, capisce che deve lasciare il Paese per salvarsi. Inizia così la lunga traversata verso il continente europeo, passando la frontiera settentrionale curda dell’Iraq, per poi proseguire verso la Turchia e, infine, arrivare in Svizzera, lo Stato che meglio rappresenta il benessere e la tranquillità che, in teoria, dovrebbe rappresentare questa piccola parte di mondo. Del percorso verso la libertà non viene raccontato molto. Emergono le figure dei passatori, persone che si occupano di accompagnare i rifugiati da un luogo ad un altro, oltrepassando le linee di confine militarizzate. Vengono messe nero su bianco verità non sempre intese da tutti, come: «La fuga per mare è la soluzione più pericolosa, non salire mai su un’imbarcazione finché hai altre possibilità».

In Svizzera, Dafer inizialmente non trova la vita che si era immaginato. È costretto a passare da una casa per richiedenti asilo ad un’altra, tutte mediamente inospitali e circondate da persone altrettanto inospitali, ma soltanto velatamente. Gli svizzeri trattano il protagonista e gli altri rifugiati con indolenza, passando da una pratica burocratica all’altra, non lasciando loro grossi margini per sentirsi accolti e per costruirsi possibilità, per non parlare delle tante volte in cui mettono in atto pratiche di ostruzionismo, chiedendo a Dafer, per esempio, come fosse possibile che uno studente iracheno avesse ottenuto il dottorato in Letteratura araba come lui pur non collaborando con il regime. Le persone che si trovano nei centri per richiedenti asilo sono trattate con inferiorità, e la situazione di immobilismo protratto è così permeante che un amico di Dafer, Rafet, si suicida per sfuggirvi.

Il tempo del racconto, però, risale a qualche anno dopo, quando il protagonista ha trovato una casa per conto suo a Weinfelden, passeggia sotto agli alberi nei pressi del fiume Aar come in Iraq sulle sponde dell’Eufrate, progetta una vita diversa, con un mestiere che lega le persone in un altro modo rispetto a quello che Dafer aveva messo in pratica in gioventù. Nel frattempo è riuscito ad andare a trovare la sua famiglia in Iraq, cercando una maniera per sanare la ferita inflitta i suoi parenti dalla scomparsa di uno dei suoi fratelli.
Quando torna, la sua terra nativa gli appare diversa da quella che aveva idealizzato. La lotta contro i terroristi ha sfinito le persone, così come la costante presenza delle mine antiuomo e dei continui funerali dei celebrati eroi di guerra. «Quando muore qualcuno, la famiglia osserva il lutto per tre giorni. […] Una nascita non si celebra», dice uno dei fratelli di Dafer al protagonista, cercando di spiegargli l’Iraq del suo quotidiano.

L’impossibilità di dimenticare il conflitto bellico e le morti causate da esso sono due dei temi ricorrenti del romanzo. I richiedenti asilo sono stravolti dalle scene disumane a cui hanno assistito e, se non le rifiutano completamente, cercano di elaborarle tramite la lettura di testi inerenti ad esse. Il sogno della libertà frustrato dalle situazioni in cui si sono imbattuti gli immigrati una volta sbarcati in Europa è un altro dei drammatici temi davanti ai quali si viene posti, così come la miopia dei funzionari nei confronti delle loro caratteristiche personali, a favore di un unico comodo appiattimento delle storie singolari.

Tuttavia, Al Shahmani sceglie di raccontare seguendo soprattutto il filo logico della parola che narra, sia essa scritta o parlata. Praticamente ogni episodio della vita di Dafer è marcato da un evento o da un particolare legato alla parola, concretizzatrice della storia dell’uomo-Dafer, così come degli uomini intesi come umanità.

I ricordi dell’infanzia nell’Iraq meridionale prima della guerra contro l’Iran ruotano intorno alle lettere in legno che un’amica della nonna regalò alla nonna stessa, una donna analfabeta, perché potesse imparare la scrittura. Il primo scritto del protagonista che viene pubblicato, una poesia su un giornale, riveste una certa importanza affettiva per via, ancora una volta, della nonna di Dafer che, pur sempre analfabeta, si fa indicare e accarezza il nome di suo nipote stampato sulla carta.

Ancora, l’amicizia con gli amici dell’università, dei ragazzi di sinistra contrari al regime, passa attraverso la lettura di libri proibiti e alla conseguente paura di essere sorpresi in possesso di copie illegali degli stessi volumi. Anche l’affinità con Rafet passa attraverso l’uso della parola. Infatti Rafet, un calligrafo nonché amante delle lingue, si approccia per la prima volta con il protagonista del romanzo complimentandosi con lui per il suo arabo standard. Anche nel drammatico momento in cui Dafer torna in Iraq e cerca di far elaborare ai genitori il lutto per la scomparsa di uno dei suoi fratelli, lo fa attraverso l’espressione verbale del dolore stesso: «Se trovi un linguaggio per la ferita, puoi aiutarla a guarire», dice.

Ma non è soltanto la lingua araba a essere l’idioma protagonista. Dafer e Al Shahmani imparano il tedesco, che apre loro nuove possibilità di espressione e di vita, tanto che è la lingua in cui viene scritto questo romanzo. Perché la lingua imparata da adulti, la lingua scelta, definisce la nostra persona tanto quanto lo fa la nostra lingua madre, definendoci in modi diversi. Il protagonista nota che la sua nuova conoscenza riveste una certa importanza nella sua nuova vita in Svizzera. E, ancora, il suicidio di Rafet è elaborato e narrato attraverso una riflessione sulla lingua:

«In quale lingua la morte parla di te? In arabo, la lingua della tua anima, a cui hai dedicato la tua arte calligrafica? O in francese, la lingua che hai amato? La lingua della morte è una lingua personale, la lingua con la quale abbiamo dato forma alla nostra vita, la lingua del desiderio […]».

Infine, le lettere arabe, concretizzate in quelle intagliate in legno per la nonna del protagonista, tornano a Dafer chiudendo un ciclo. La migrazione forzata è una sofferenza immortale, ma viene lenita dai nuovi progetti di unire i popoli in una pace metaforica e, chiaramente, dalle parole. La lingua è un fine, non soltanto un mezzo, per dare voce alla storia personale.

Eleonora Mander

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