Giocare a basket nell’Ungheria sovietica

La Nottola è una rubrica curata da Stefano Vernamonti.
Racconta libri rimasti nascosti, nelle penombre della cultura, o al di fuori delle “novità editoriali”.

Sotto il culo della rana, Tibor Fischer
(Mondadori, 1997 – trad. Annamaria Biavasco, Valentina Guani)

Quando Tibor Fischer, nel 1991, dopo aver documentato da Budapest la caduta dell’Unione Sovietica, invia il manoscritto del suo romanzo d’esordio alle case editrici inglesi, riceve cinquantasei rifiuti su cinquantotto. Esistono due chiavi di lettura tipiche di eventi come questo: la prima è che i libri belli sul serio faticano sempre a trovare la loro strada per la pubblicazione. La seconda – abbracciata anche da Tibor stesso – è che l’editoria è geneticamente un ambiente molto di sinistra. Difficile insomma, seppur all’alba del crollo dell’impero russo, trovare un editore disposto a pubblicare le vicissitudini di un gruppo di giovani cestisti ventenni che le tentano tutte pur di non lavorare in fabbrica e di fuggire a gambe levate dall’Ungheria sovietica. In un’intervista, Tibor sospetta che se avesse raccontato eroici allevatori di polli guatemaltechi che sfidano l’imperialismo yankee, il romanzo avrebbe avuto un’accoglienza più amichevole.

Non stupisce perciò che, proseguendo l’intervista, Tibor sostenga anche che le persone vedano il fascismo e il razzismo ovunque, che viviamo in una società del piagnisteo e che i suoi studenti siano tutti pigri. Certe visioni del mondo vanno proprio sempre a braccetto. Ma rimane un fatto: quando ha scritto Sotto il culo della rana in fondo a una miniera di carbone, Tibor Fischer sapeva di cosa stava parlando, e sapeva di averlo fatto bene. Questo perché, seppur nato in Inghilterra e pur sapendo a malapena scrivere un assegno in ungherese, entrambi i suoi genitori erano nati e vissuti nell’Ungheria sovietica, entrambi erano stati giocatori di pallacanestro ed erano fuggiti assieme dal Paese in seguito all’insurrezione ungherese del 1956. È sulla base dell’esperienza dei genitori che Tibor scrive.

Il romanzo racconta infatti l’adolescenza di Gyuri Fischer, un ragazzo ungherese che nel 1944 ha quattordici anni e nel 1956 ne ha ventisei: troppo pochi prima per poter recitare una parte consistente nel braccio di ferro russo-tedesco in Ungheria alla fine della Seconda Guerra Mondiale, troppi in seguito per illudersi che un’insurrezione possa davvero scacciare i sovietici da casa sua. In mezzo, dodici anni di tallone di ferro vissuti “sotto il culo della rana” – detto ungherese che si utilizza per descrivere una condizione di sfiga assoluta – cioè sotto un regime comunista da figlio della borghesia, e quindi da “nemico oggettivo di classe”. Stigma che Gyuri ritiene ingiusto non tanto in quanto ostacolo per l’accesso al lavoro o all’Università, quanto per il fatto che suo padre tutto era in realtà tranne che borghese:

“A parte il mestiere di allibratore, che non era esattamente la carriera più benvista nei salotti, c’era da tener conto del suo comportamento da vecchio morfinomane, molestatore di vedove e cameriere, con il manganello e la siringa sempre a portata di mano […] in seguito, dopo aver perso tutto il suo denaro, invece di cercare di rifarsi delle perdite sgobbando disciplinatamente come si addiceva a un borghese rispettabile, Elek si era accontentato di starsene in poltrona, con il pullover bucherellato e il collo rigido, a riflettere sul dilemma teorico di come procurarsi una sigaretta”.

Nel clima oppressivo al di qua della cortina di ferro, la pallacanestro è per Gyuri e per i suoi amici l’unica via di fuga tanto dal servizio militare quanto dallo stacanovista lavoro in fabbrica, oltre che occasione per avventure sessuali in ogni paesino ungherese toccato dal campionato. Ogni episodio della vita di Gyuri, tra partite di basket, arresti, feste, perquisizioni, è però soprattutto il pretesto per una critica tanto feroce quanto divertente di un regime come quello ungherese, quasi trash nel senso labranchiano, nella sua incapacità di essere una dittatura all’altezza delle aspettative che i regimi storicamente dittatoriali hanno impresso nell’immaginario collettivo:

“La dittatura del proletariato, a parte l’asprezza e la brutalità del suo dispotismo, era terribilmente noiosa […] non reggeva il confronto con le grandi tirannidi del passato, di Caligola, oppure di Nerone. Quelle sì che erano tirannie, con eccessi, colore, grande abbondanza di fornicazione, direzione artistica, eccitazione sfrenata, panem et circenses. E a noi che cosa è toccato, rimuginò Gyuri? Panem quasi niente e, quanto ai circenses, solo quelle in cui dei tizi con una palla rossa al posto del naso corrono intorno a una pista piena di segatura”.

La prosa di Tibor è cruda nel suo raccontare, quasi giornalistica, e al crocevia di questa felice deformazione professionale nasce un linguaggio rapido ma esegetico, che prende l’accuratezza storica della narrazione e la ordina quasi come a trasformarla in un’editoriale satirico; anzi più d’uno, dato che i capitoli, a eccezione del primo, sono ordinati in sequenza cronologica ma sono debolmente collegati fra di loro. Ogni capitolo è insomma un j’accuse che potrebbe benissimo stare in piedi senza l’impianto narrativo complessivo.

La vena ironica e dissacrante di tutto il romanzo svanisce però nell’ultimo capitolo, che racconta i dodici giorni di insurrezione ungherese: la prima rivolta contro l’impero sovietico, poi brutalmente soppressa ma testimonianza dell’afflato di libertà dei senza potere, impossibile da soffocare per qualsiasi regime, che invece pretende obbedienza sottovetro, isolante, docile. L’esito dell’insurrezione è noto, ma non sarà definitivo, perché all’oppressione non ci si arrende mai:

“«Ne abbiamo uccisi troppi? Troppo pochi?» Si domandò Kurucz riferendosi a quelli dell’AVO e del Partito. «Trovano sempre dei sostituti. Collaborazionisti e stronzi sono gli ultimi a morire, come la speranza»”.

Stefano Vernamonti

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