Divorziare con stile, Diego de Silva
Einaudi, 2017
Undici anni fa cominciava l’avventura di Vincenzo Malinconico, con Non avevo capito niente, edito Einaudi nel 2007, per continuare con Mia suocera beve (Einaudi, 2010) e Sono contrario alle emozioni (ancora Einaudi, 2011). E, alla fine del 2017, Divorziare con stile. Bisogna sempre togliersi il cappello al cospetto di un personaggio ben riuscito, e Vincenzo Malinconico lo è. Principalmente lo è perché è la personificazione dell’uomo qualsiasi: quel tipo d’uomo intelligente, colto, furbo, con la risposta sempre in punta di lingua, senza alcun tipo di fama ma che forse l’avrebbe meritata. Vincenzo Malinconico è un po’ il ritratto di una moderna borghesia annoiata, ma lontanissimo dall’ essere egli stesso noioso.
Divorziare con stile è la trascrizione della sua ultima peripezia, un po’ amorosa, un po’ giuridica, un po’ familiare. Dico trascrizione perché, in fondo, il personaggio di Vincenzo Malinconico è talmente ben tratteggiato che ormai vive di vita propria, e sembra quasi che uno non debba far altro che pensarlo e trascrivere ciò che ha da dirci.
Non si fa fatica a immaginare che, in certe misure, Diego De Silva e Vincenzo Malinconico si somiglino. Sicuramente sono maturati insieme: sono passati undici anni da quando Vincenzo Malinconico ha fatto il suo ingresso sopra la carta stampata uscendo dalla mente di Diego De Silva, e probabilmente ormai è complesso distinguere le due personalità. Forse intimamente sono uguali, si somigliano, ma quelle dipinte da Diego De Silva non sono autobiografie mascherate. Sono sempre stata dell’idea che un autore che scrive autobiografie in giovane età sia un povero narcisista. Ebbene, Diego De Silva ha trovato un intelligente escamotage: la biografia di un alter ego, che maturi con l’autore, cresca con lui e pensi le cose che, forse, l’autore stesso non osa dire. Un buon modo per esercitare la propria libertà d’artista, mi verrebbe da pensare.
Non sorprende, quindi, che Divorziare con stile sia un inno alla personalità di Malinconico, iper-presente lungo tutto il romanzo, visto e considerato che Malinconico è un narcisista di professione. Ha da dire su tutto: i tassisti, i giudici, il collega commercialista col quale divide l’ufficio, la segretaria sfaccendata, la sua ex-moglie, i suoi amici del liceo, il figlio che si trasferisce per frequentare l’università, la figlia che si sposa. Non si salva nessuno, e spesso e volentieri Malinconico ha tutte le ragioni di dire quello che dice e di pensare quello che pensa; il problema è che Malinconico è quel tipo di persona con la quale ci si diverte quando si è in gruppo, mentre lo senti inveire contro il genere umano. Ed è esilarante finché non comincia a prendere in giro te.
Nonostante questo, il fascino di Malinconico è sicuramente il modo in cui parla, descrive ciò che gli accade. Ovviamente questo è merito di De Silva, il che mi porterebbe a dire che anche Diego De Silva ha un che di affascinante: il linguaggio. Subisco sempre tanto il fascino di chi usa termini del mio amato dialetto napoletano, di chi non si vergogna di imprimere il marchio d’appartenenza nella sua parlata. De Silva-Malinconico usa termini a me cari, li scrive “italianizzandoli” ma senza renderli ridicoli o, peggio, senza cercare di fare una traduzione: semplicemente li mette nei contesti appropriati, così che vengano compresi a prescindere. Il dialetto napoletano non si può tradurre, si deve solo sentire.
Come se non bastasse questo, Diego De Silva crea ritmi serrati e perfettamente calibrati, senza dimenticarsi mai come è davvero un dialogo, una parlata tra amici, un abbordaggio ai margini di un marciapiede. È sempre difficile portare su carta un linguaggio colloquiale che non sfoci nel volgare, o nello sgrammaticato, che rimanga bello e godibile ma che trasmetta l’idea delle mediazioni dialettali, degli intercalari e di tutto ciò che compone noi esseri umani quando parliamo. Credo che una delle grandi difficoltà degli scrittori sia quello di scrivere dei dialoghi credibili, intelligenti e mai noiosi: Diego De Silva fa scuola, su questo non c’è nulla da dire.
Clelia Attanasio