Mani – Viaggi nel Peloponneso, Patrick Leigh Fermor
(Adelphi, 2004 – Trad. F. Salvatorelli)
Patrick Leigh Fermor è una piacevolissima scoperta. L’esistenza avventurosa sua e di Joan – compagna di vita e di viaggio, dedicataria del testo – meriterebbe un articolo a sé. Inglesi, di buona famiglia, entrambi arruolati nella seconda guerra mondiale, talvolta con incarichi anche di rilievo – con una grande passione per i viaggi e per il mondo ellenico. Mani, come da sottotitolo, racconta di uno di questi viaggi, compiuto nella zona più arretrata, ostica, isolata e fiera della Grecia: l’estremo sud del Peloponneso, la regione del Mani, montuosa e aspra, che termina nel Capo Matapan.
Lo spirito d’avventura che pervade tutto il testo, la vita presa come viene, alla giornata, ricorda un po’ On the road. Ma non ci sono macchine nel Mani; per la maggior parte del tempo non c’è la minima traccia di tecnologia e di Novecento, niente radio, niente tv, niente ciclomotori, addirittura niente strade se non sentieri battuti: solo sassi e sterpi, sole e polvere. Gli spostamenti si fanno a piedi, a dorso di mulo nei momenti più fortunati, o tramite caicchi dove presenti.
Ma non aleggia solo l’eco di Kerouac su queste pagine: è perfettamente avvertibile un pieno spirito classico, un’ “invidia del V secolo”, il profondo e sincero amore dell’autore per l’antichità greca; amore che si traduce in un’inesauribile curiosità e in un completo rispetto per quei sassi, per i contadini e i pastori, per i pescatori e per ogni minuto passato in posti brulli, eppure ricchi di un’umanità da scoprire. Leigh Fermor è un narratore affascinante: correda i suoi racconti, le cronache delle tappe del suo viaggio, di storie, leggende, tradizioni, curiosità antropologiche, anche excursus dotti su argomenti che spaziano dalla storia della Grecia moderna alla discendenza dei Paleologhi; e nel farlo non risulta mai eccesivo, tedioso, evitabile, anche perché non manca di alleggerire i passi eruditi con quadretti bucolici che distendono l’andamento narrativo.
Con tutto ciò si dimostra un degno erede di quegli autori che ammira: Pausania in primis, ma c’è anche Erodoto negli excursus, nell’entusiasmo bambinesco con cui si esalta davanti a nuove possibilità di conoscenza, nella minuzia di particolari che offre al lettore, preoccupandosi quasi che abbia abbastanza materiale per farsi una propria opinione sulle questioni lasciate aperte. La scrittura è scorrevolissima; le descrizioni di Leigh Fermor sono icastiche, leggendole sembra d’essere catapultati all’improvviso nel Peloponneso e di godere dei suoi tramonti (mai uno uguale all’altro), tra le sue torri e i canti perpetui delle cicale.

La lettura di Mani è un’esperienza interessantissima per il classicista, per chi la storia di questi posti l’ha studiata o la studia, e la ama, ma anche per il neofita. Per il primo, perché leggendo troverà tanto di familiare; è impressionante vedere quanto il passato leggendario lasci impronte durature anche sul vecchio abitante del villaggio più remoto, capace di parlare di miti e fatti storici di qualsiasi epoca, come se fossero accaduti appena l’altro ieri. La mitologia classica e preclassica rivive con semplicità e immediatezza, e anzi si direbbe non sia mai morta. La continuità è sovrana nella formazione dell’identità greca.
“C’è una rara e deliziosa usanza cretese di bere «come ranocchie» – ta vatrachakia, si chiama, o in dialetto stretto t’afordakakia. Due bevitori tengono i bicchieri per l’orlo superiore opposto, e li dondolano pian piano contemporaneamente, in modo che gli orli inferiori si tocchino, rimbalzino e tornino a toccarsi con una serie di bottarelle che mimano un tenue e lontano gracidare. Si ripete tre volte. «Brekekekéx!» mormora uno, «Koax!» l’altro; e la terza volta tutti e due mormorano un «Koax! » finale all’unisono. Il bicchiere non è mai riempito di vino più che a metà, in base al principio che così si beve di più: il vino va giù d’un fiato, e occorre far subito rifornimento.”
Per il neofita, Mani è un piacevolissimo viaggio alla scoperta di una realtà che sembra molto più antiquata di quanto sia realmente. Nella regione il tempo sembra essersi fermato a uno strano Medioevo in cui talvolta fanno capolino deliziosi anacronismi. Come se questo non bastasse, i piani temporali danno l’impressione di incunearsi continuamente l’uno nell’altro, grazie a digressioni ed excursus; Vecchia Grecia e “Nuova” Grecia convivono senza contraddizione, senza forzature.
Infine, si lascia davvero apprezzare il genuino interesse appassionato di Leigh Fermor per l’Ellade nel suo insieme. Trasuda dalle parole, è schietto ed evidente. Il suo trasporto comunica la philosophia nel senso etimologico del termine, l’amore per il sapere, quella philosophia che è sempre stata una delle principali caratteristiche dei Greci dell’ “età aurea” in particolare, pensatori per eccellenza e amanti del piacere che la conoscenza conferisce.
Alessia Angelini
N.B. L’immagine di anteprima è stata scattata nel Peloponneso dall’autrice della recensione. È stata scelta perché mostra un paesaggio molto simile a quello predominante descritto nel testo: fianchi scoscesi di montagne, rocce, fortificazioni turrite che sembrano parte integrante della natura del luogo.
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