Vivian, la Mary Poppins che scattava fotografie

Vivian, Christina Hesselholdt
(Chiarelettere Editore, 2018 – trad. I. Basso)

 

vivianVivian Maier è oggi considerata una delle più talentuose antesignane della “street photography”: un’autrice dalla straordinaria sensibilità che ritraeva la vita così come le si presentava davanti, facendo della quotidianità un’opera d’arte. Decenni di storia americana (i primi scatti risalgono agli anni ’40) vengono documentati da un vastissimo – e ancora incompleto –  repertorio di fotografie, che ritrae New York e Chicago in tutte le sue sfaccettature. Dai quartieri poveri alla vita della classe benestante, tra donne in abiti vistosi e umili mendicanti, bambini sporchi e bambini eleganti, afroamericani e anziani immigrati, case in demolizione e ragazzi che giocano per le strade.

Eppure il nome di Vivian è stato riabilitato artisticamente solo dopo la sua morte, quando John Maloof si è casualmente imbattuto in una selezione di rullini non ancora sviluppati, acquistando all’asta il contenuto di un box ricco di oggetti disparati. La curiosità per il talento di quella fotografa sconosciuta l’ha accompagnato in giro per l’America alla ricerca di testimonianze, aneddoti, storie che permettessero di comprendere Vivian e la sua vita. Come ha potuto una donna di tale talento rimanere nell’ombra, rinunciare a esporre i suoi lavori e arrivare persino a dimenticarseli per anni in un magazzino? Un passo dopo l’altro il mistero di Vivian Maier è stato svelato, ispirando da allora la stesura di numerosi libri – tecnici o biografici – e la realizzazione di un documentario diretto dallo stesso Maloof.

L’autrice danese Christina Hesselholdt la recupera ancora una volta in una biografia romanzata leggera e originale, premiata come miglior romanzo danese al DR Roman-prisen 2017 e vincitrice di numerosi altri concorsi, dal Premio Beatrice a quello per la Critica Danese. Insomma, il mondo della letteratura pare aver gradito l’interessante prospettiva con cui la celebre autrice ha voluto reinterpretare ancora una volta una storia già nota, estrapolandola però dal contesto un po’ di nicchia della fotografia d’arte per aprirla a quello più universale del romanzo leggero.

Il lettore viene allora accompagnato passo dopo passo nell’umile vita di quella che è stata definita la “Mary Poppins della fotografia”, l’artista-bambinaia dal carattere difficile che nascondeva a tutti i suoi datori di lavoro i tristi dettagli della sua vita famigliare, cancellando il passato con un colpo di spugna per vivere di volta in volta nelle case dei bambini che era chiamata ad accudire. Quello che emerge tra le pagine del romanzo è il ritratto di una donna difficile, a tratti paranoica, testarda e quasi cattiva, che dirige i bambini con un atteggiamento militaresco, importuna le persone con la sua macchina fotografica, è incapace di concedersi – e concedere agli altri – sprechi, fino a  trasformarsi in una vera raccattatrice.

La spiegazione di questo suo modo di fare spesso scontroso e inopportuno viene però affrontata solo alla fine dell’opera: il romanzo è infatti ripartito in tre parti principali, tra una breve introduzione che apre una parentesi sull’infanzia infelice di Vivian, una parte centrale più corposa che descrive il personaggio raccontando la sua esperienza come bambinaia della famiglia Rice (in realtà inventata dall’autrice come sintesi di tutte le famiglie presso cui la protagonista ha prestato servizio), e una terza sezione in cui si ritorna all’infanzia di Vivian per scoprire tutti i traumi che l’hanno spinta a rifiutare la sua vita passata.

L’intento è di incuriosire il lettore, farlo indispettire di fronte a certi anomali e fastidiosi atteggiamenti, per poi chiudere il cerchio in un finale che tutto sommato la giustifica. Eppure l’impressione generale è quella di una narrazione un po’ disordinata, che si ripete con una certa insistenza nella corposa parte centrale, per poi velocizzare il racconto di quella che è probabilmente la fase più interessante della biografia di Vivian Maier.

La vera particolarità del romanzo di Hesselholdt riguarda la struttura narrativa. Per rendere più dinamico il racconto e allontanarsi ulteriormente dal canone del testo biografico, l’autrice ha adottato la formula originale di un coro di voci che si susseguono nel ruolo di narratori, commentando all’occorrenza le parole degli altri e contribuendo a svilupparne le vicende. Hesselholdt stessa svolge  un ruolo centrale nel guidare questa polifonia narrativa, assumendo però le veci di un narratore tutt’altro che imparziale: racconta spesso di sé e non perde mai l’occasione di dialogare apertamente con i suoi stessi personaggi, spesso intervallando a quesiti più seri delle battute simpatiche che vogliono divertire e far rilassare il lettore.

Si tratta senza ombra di dubbio di un espediente originale, che ha contribuito ad attirare l’attenzione della critica e il beneplacito dei lettori. Al tempo stesso però, questo intervallarsi di punti di vista impoverisce la narrazione in sé, che diventa blanda e poco immersiva, a tratti persino un po’ sciocca. La caratterizzazione dei personaggi è d’altro canto l’elemento che trae maggiore vantaggio da questo esperimento narrativo: pur affollandosi di voci, l’opera riesce a marcare con chiarezza le personalità poliedriche di tutti i personaggi in gioco. Ne mette in luce le ambiguità e ne sottolinea i difetti, rendendoli sempre intensi e affascinanti.

In conclusione, Vivian è in sé un romanzo molto leggero, facile da leggere e di grande intrattenimento, che però sacrifica molto del suo potenziale per sperimentare una formula narrativa non sempre perfettamente riuscita. Rappresenta senza dubbio un modo piacevole di approcciarsi alla storia di Vivian Maier, fotografa di strada, anomala Mary Poppins americana e artista dall’affascinante personalità.

Anja Boato

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