Molto mossi gli altri mari, Francesco Longo
(Bollati Boringhieri, 2019)
Michele è un ragazzo che non si è mai spostato dalla baia di Santa Virginia; è l’unico, tra tutti i suoi amici, che in quella località trascorre anche quelle stagioni che non sono l’estate, quando i turisti sono in città a trascorrere la loro vita di sempre, i loro giardini diventano così incolti da sembrare selve e l’unico respiro che si sente è quello del mare. È una vita di attesa, quella di Michele: un’esistenza che ritorna a pulsare solamente coi primi calori di maggio, quando la baia si ripopola e le sue amicizie rispuntano per le vacanze: l’insofferente Silvia, il carismatico Guido, il Cicogna e i suoi libri, e soprattutto Micol, la ragazza ebrea da cui dipendono i tormenti amorosi e il senso dell’esistenza del protagonista. Tuffi in mare, scherzi, partite a ping-pong, escursioni e sbronze sono il combustibile con cui l’infanzia brucia sotto il sole della baia fino a settembre, quando anche le ultimi braci si estinguono e il fiore della giovinezza di Michele si richiude per l’inverno, in attesa di una nuova estate.
Il romanzo dell’esordiente romano Francesco Longo si svolge su due piani narrativi: il presente è quello di un Michele maturo, che dopo molto tempo rivede i suoi vecchi amici, accorsi alla baia con l’intenzione di surfare sugli enormi cavalloni di un mare squassato da una terribile tempesta; i flashback, il recupero attraverso la memoria di un’infanzia passata e perduta, scaturiscono con violenza quando Michele apprende che Micol si sta per sposare, ed è venuta anche lei a Santa Virginia per annunciarlo a tutti. Il passato narrato è quello di una giovinezza che ha avuto Micol come centro di gravità: il loro primo incontro, il frequentarsi, le discussioni, le loro vite che, crescendo, si staccano gradualmente, complice anche un amore che non è mai riuscito a fiorire. Intorno al rapporto in presenza e a distanza tra Michele e Micol, si affollano altri personaggi, altre situazioni che rendono la vita estiva di ognuno un circo di vitalità ed eccedenze che, ciclicamente, si accende e si spegne ogni anno per tre mesi.
Michele e Micol (omonimi dei protagonisti di Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani) condividono un rapporto sfuggente, che sottrae l’uno all’altro e strozza sul nascere ogni possibilità di realizzazione amorosa. Entrambi sembrano divisi da una distanza non colmabile, come due pesci che si guardano da due bocce diverse, ognuno nel suo mondo, ognuno escluso dall’altro. A differenza di Michele, che è condannato a una contemplazione platonica di un amore che non avrà mai, Micol riesce a vivere oltre la delusione di un rapporto mancato, ed è questo scarto di comportamenti – e il derivante e crescente risentimento del ragazzo – che porterà la loro ambigua amicizia a marcire fino a ridursi a una muta conoscenza.
Insieme a un’onnipresente nostalgia, le pagine sono impregnate di un senso di attesa. Michele spende la propria vita aspettando: che sia l’estate, le amicizie, Micol o l’onda perfetta da cavalcare, il protagonista è in perenne attesa di un miracolo che, da giovane, conferisca alla sua esistenza una pienezza altrimenti irraggiungibile, e, una volta adulto, possa orficamente riportare indietro la sua infanzia, per ricominciarla da capo («se ci pensi, tutto si è sgretolato nell’istante in cui avete smesso di venire qui. È colpa voltra, la magia è finita quando avete cominciato ad andare in Grecia. Questa mareggiata è l’occasione per reimpostare tutto, è chiaramente un varco per tornare dove eravamo rimasti»). È l’utopia di un’estate infinita, dove l’estate è solo l’allegoria di un senso più profondo della propria vita.
Un’atmosfera che ricorda quella del Montale di Ossi di seppia, di un soggetto scartato dal presente e dalla vita degli altri, perennemente lasciato fuori da qualsiasi esistenza autentica, che non ha altro se non aspettare un’epifania che lo salvi e l’occasione per riprendersi un passato vissuto veramente. Michele è l’unico tra tutti i personaggi che non è mai riuscito a crearsi una vita al di fuori di Santa Virginia e della parentesi estiva e, mentre il resto dei suoi amici asseconda la maturazione e si crea un’esistenza in cui l’estate alla baia è solo uno dei minori aspetti della propria vita, Michele non riesce a costruire oltre la propria infanzia – i mari più mossi sono gli altri, non il suo, non quello di Santa Virginia. Il protagonista vive rivolto al passato in modo disperatamente ossessivo, e solo quando è troppo tardi capisce che la baia non è nient’altro che un feticcio, un museo dei sentimenti, qualcosa che non può più portare nulla di positivo e costruttivo.
Davanti alle preziosissime e toccanti atmosfere e psicologie dipinte dall’autore, a Longo si può perdonare uno stile a tratti eccessivamente strabordante, molto poco asciutto. Il romanzo abbonda fino alla saturazione di descrizioni che, se all’inizio danno colore e corpo agli scenari, presto diventano ridondanti fino al barocchismo. Alcuni momenti descrittivi sono così fitti da disorientare, e si può anche registrare una certa ansia e tensione di voler sorprendere continuamente il lettore tramite accostamenti metaforici o usi aggettivali molto enfatizzati (per cui, anche un semplice sedersi su una panca diventa uno «schianto di legno spezzato»). Ma tutto questo è solo un neo.
Il romanzo d’esordio di Francesco Longo è un bel romanzo che punge nel vivo il lettore e lo porta a riflettere riguardo a ciò che fu la sua estate; Molto mossi gli altri mari si inserisce in modo pregiato e originale nel filone narrativo a tratti abusato dell’estate giovanile, non temendo né soffrendo il confronto con gli autori già affermati che vi si sono cimentati.
Michele Maestroni
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