La casa del dolore altrui, Julián Herbert
(2018, gran vía – trad. F. Fava)
Per gli appassionati di letteratura latino-americana e spagnola, gran vía (una casa editrice indipendente umbra) è decisamente un buon posto dove capitare. Nel 2018 ha pubblicato La casa del dolore altrui, un romanzo dell’autore messicano Julián Herbert: a metà strada fra finzione e ricostruzione storica, il libro racconta del massacro di una comunità cinese realmente avvenuto nel 1911 a Torreón, nel Messico infiammato dalla rivoluzione di Francisco Madero, Pancho Villa e Emiliano Zapata.
Questi i fatti: le truppe di Madero entrano a Torreón, mettono in fuga l’esercito governativo e massacrano, senza apparente motivo se non l’avidità e il razzismo, la comunità di cinesi stabilmente integrata nella città. Fra sabato 13 e lunedì 15 maggio 1911 morirono almeno 303 cinesi: la maggior parte dei quali trucidata a colpi di machete, anche se non mancarono quelli scaraventati giù dai terrazzi o uccisi, in ginocchio per strada, da una pallottola in fronte. Per quest’ultimo caso Herbert parla di “esecuzione”: tipico del gergo della criminalità organizzata, il termine purtroppo è passato anche nell’uso comune; indica la pretesa, da parte di chi detiene solo il diritto del più forte, di assumere su di sé un’improbabile autorità giudiziaria.
La narrazione di questo piccolo genocidio è stata stravolta dalla memoria collettiva messicana, che, nel migliore dei casi, lo giustifica sostenendo che ci sia stata un’aggressione da parte dei cinesi alle squadre di Madero: tesi infondata, dato che la comunità di immigrati non era né armata né tantomeno particolarmente coinvolta nel conflitto fra governativi e rivoluzionari. Le domande a cui Herbert con questo libro cerca di rispondere riguardano tanto il fatto in sé quanto la sua mistificazione successiva: Perché è successo? Perché nessuno se ne è assunta, e tutt’ora nessuno se ne assume, la responsabilità?
Il romanzo ha una fisionomia molto interessante: gran vía lo ha inserito nella sua collana «diagonal – letteratura obliqua» ed è difficile immaginare una collocazione più appropriata. L’autore, mentre scrive, conduce alcune riflessioni sulla natura del libro stesso, a volte contraddittorie fra loro: «Decisi di scrivere un racconto ambiguo, adottando un taglio stilistico trasversale in cui gli avvenimenti del passato e i suoi incastri nel presente (e in me) si intrecciassero in un unico territorio»[*]; ma subito dopo lo definisce una «parodia», nel senso genettiano di ode parallela o contro-canto, «del romanzo latinoamericano del XX secolo»[**]; ed infine «un racconto ma anche un saggio: una riflessione obliqua sulla violenza in Messico»[***]. Dunque, un romanzo indefinibile dove c’è non solo un’indagine storica corredata da un (forse troppo) ampio repertorio di fonti d’archivio; ma anche, fra le righe, Garcia Marquez e Vargas Llosa; ed infine una riflessione socio-politica sul Messico contemporaneo.
In conclusione, La casa del dolore altrui è un libro che merita di essere letto per una serie di motivi. Il lettore interessato a temi politici troverà un resoconto preciso di fatti, dimenticati o mai conosciuti, che chiamano in causa problemi di gestione delle migrazioni, integrazione, giustizia sociale, razzismo; il lettore con interessi più letterari riconoscerà nell’incedere sonnacchioso della narrazione una certa “aria di famiglia” che ricorda Cent’anni di solitudine[****] o La guerra della fine del mondo[*****]; il semplice lettore che ha incontrato La casa del dolore altrui per caso, troverà un libro in cui con il linguaggio e la memoria si combatte l’oblio e l’orrore.
Adriano Cecconi
[*] J. Herbert, La casa del dolore altrui, Narni, Gran via, 2018, p. 18.
[**] Ivi, p. 20
[***] Ibidem
[****] G. Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine, Milano, Mondadori, 2017
[*****] M. Vargas Llosa, La guerra della fine del mondo, Torino, Einaudi, 2008