Sillabario dell’amor crudele, di Francesco Permunian
(Chiarelettere, 2019)
Teodoro ha deciso di lasciare ai posteri un elaborato compendio della sua vita, scritto su grossi fogli di carta da pesce e catalogato tramite lettere dell’alfabeto. Ne deriva il Sillabario dell’amor crudele, un’autobiografia in 26 parti dall’ordine totalmente arbitrario, in cui Teodoro racconta la sua triste vita da nano in un orfanotrofio per bambini deformi. Abusato dai preti, rinnegato dai genitori, abbandonato dalla moglie, svilito da chiunque lo abbia incontrato, il nostro protagonista guida la folle parata di personaggi carnevaleschi che affollano le pagine dell’opera di Permunian.
L’obiettivo dell’autore è quello di scardinare tutte le regole della morale e creare un’improbabile storia di zoofilia e pedofilia, prostituzione minorile e alcolismo, che distrugga l’immagine della Chiesa, dell’editoria e della decenza umana. Il Sillabario parla di sesso, di alcol, di fobie, di storpi, di cibo, di bisogni fisici, di perversione, di deficienza (in tutti i sensi possibili). Qualche volta anche di problematiche sociali, ma solo per drammatizzarle in un eccesso irrealistico.
Il Sillabario combina un linguaggio aulico e raffinato alla volgarità più becera, racconta con somma grazia il peggio dell’umanità e se ne compiace. Forse persino troppo: esagera, e nel farlo ci prova gusto, al punto da diventare ripetitivo. L’effetto straniante delle prime pagine si perde nel suo riproporsi costante, in una sfilata di personaggi volgari e grotteschi che si muovono sulla scena come maschere immutabili dentro vicende create esclusivamente per esaltare le loro deformità.
Il proposito iniziale di Teodoro di vendicarsi dei preti che l’hanno privato della sua infanzia, finisce con il perdersi nel flusso di ricordi, per essere recuperato solo alla fine. Le immagini sono fantasiose e intriganti, ma non girano intorno a nessun perno fisso. Questo non toglie al Sillabario il suo mordente, quella capacità genuina di divertire senza far ridere, ma tende a ridurre un’ottima idea a un esercizio di stile fine a se stesso. Un cabaret su carta di mostruosità e parafilie, uno spettacolo da strada raccontato con uno stile lirico che cerca di dare lustro alla deiezione umana più becera. L’effetto è ovviamente ancora più grottesco e sporco, il classico gioco di contrasti tra il cosa viene raccontato e il come. È una duplice esagerazione, tra l’assoluto irrealismo degli eventi e l’improbabilità di un linguaggio ottocentesco nella bocca di un uomo moderatamente istruito del ventunesimo secolo.
Nei fatti, il Sillabario dell’amor crudele è un gioco letterario fine a se stesso. Talvolta tocca dei picchi di ironia (e blasfemia) divertenti e originali, altre volte si ripete proponendo personaggi sempre uguali a se stessi in situazioni che difficilmente spiccano sulle altre. L’effetto è quello di una goliardia perversa e irriverente, che va letta per il suo coraggio disinibito di deridere il potere, rendendolo un romanzo particolare nel suo genere.
Anja Boato