“Cadere”: storia di una famiglia cubana

Cadere, Carlos Manuel Álvarez
(SUR, 2020 – trad. di V. Colonnelli)

SURns37_Alvarez_Cadere_cover-409x617“Tutti abbiamo una casa. È lì che va sempre tutto storto.” È una citazione di Philip Roth, apre Cadere, il romanzo d’esordio del cubano Carlos Manuel Álvarez ed è una frase perfetta, che sarebbe in effetti sufficiente a contenere tutto il libro: la casa, la famiglia, sono ovunque, da noi come in America Latina, luoghi vacillanti, geografie di crepe, impalcature sul punto di crollare. La letteratura tuttavia non vive di aforismi e di assertività, ma di complesse costellazioni vitali, di dettagli: e tutto il romanzo di Álvarez si occupa infatti di mettere addosso a quella frase la carne, i muscoli, i nervi, il sangue.

Si parla di una famiglia cubana: il figlio, la madre, il padre, la figlia. Ognuno ha la sua croce: il suo piccolo dolore individuale che la vicinanza degli altri non sembra poter sanare; stiamo parlando di sofferenze di ogni tipo, da quella ideologica del padre, che deve fare i conti con il disfacimento di un sogno politico, a quella fisica della madre, che versa in una grave condizione di salute e spesso si ritrova a “cadere”, per l’appunto. Per questo motivo, i racconti dei quattro personaggi tendono a deragliare, a spostarsi in passati diversi senza un ordine preciso, costruendo anche formalmente il quadro di solitudini che non riescono mai a incrociarsi nel tempo.

In questa famiglia non solo non c’è rimedio al dolore, ma succede anche che quel male individuale si diffonde e diventa il principio di un male collettivo. Ogni personaggio fa male a qualcun altro, proprio come i polli del finale che, sebbene siano animali totalmente inoffensivi, per noia “finiscono per beccarsi tra loro, mangiandosi le viscere”. Ecco allora che il tentativo di autoconservazione in famiglia diventa presto un tentativo di sabotaggio di qualcun altro: per cercare di essere un po’ più liberi, un po’ più felici, i personaggi inevitabilmente si calpestano i piedi a vicenda. Non è forse così ovunque?

La scena più bella e più esemplificativa, d’altronde, è quella del petto di pollo – il pollo è, in questo romanzo, un inquietante elemento tematico. Dopo settimane di stenti la madre riesce finalmente a procurarsi un petto di pollo e decide di cucinarlo per quella sera, preparando una cena ricchissima, come la famiglia non ne vede da tempo. I bambini – il figlio e la figlia – però non gradiscono: non sono abituati a riconoscere il petto di pollo come un piatto speciale, e non riescono a mangiarlo almeno quanto non riescono a mangiare la polenta dolce o gli altri piatti insipidi di ogni giorno: la soluzione è presto detta; non volete mangiare, bambini?, non vi preoccupate, datemi qui i piatti, andate pure a giocare. La scena finisce con il padre e la madre che mangiano sul balcone il cibo che sarebbe stato destinato ai loro figli.

Possiamo dire, in poche parole, che Carlos Manuel Álvarez ha messo in scena molto bene questo nucleo di verità famigliari, tenendo d’occhio in modo evidente – per l’aspetto strutturale – certi pezzi di letteratura che sono ben noti: uno su tutti, Mentre morivo di Faulkner. Cadere è quindi un romanzo che si inserisce alla perfezione in uno specifico solco della letteratura, e ci sta dentro con dignità, anche se dubito si possa dire che lo porta granché in avanti. Seppur buono, resta comunque qualcosa di già letto, un’opera tra le tante che affrontano questo tema, senza alcuna particolare originalità formale o di immaginario. Resta quella sottile amarezza di fondo, di aver letto un buon racconto, niente di più.

Mi è sembrato inoltre che a questo libro mancasse una qualità fondamentale, tipica della grande letteratura. Leggendo, avevo l’impressione che la specifica densità di scrittura, il ritmo, non fossero in grado di condurmi nella lettura a loro arbitrio, di spingermi a percorrere il testo alla velocità scelta dall’autore. Mi sentivo distaccato, come se il torrente di parole non fosse abbastanza forte da trascinarmi con sé: lo vedevo scorrermi intorno, scivolare debole. Può darsi che sia stata una mia impressione, ma ne dubito; forse semplicemente Álvarez avrebbe dovuto dare a questa storia un respiro più ampio, per permetterci di sentirne meglio le pulsazioni.

Nello scrivere questo libro Álvarez ha guardato giustamente alla tradizione letteraria che sentiva più vicina a sé e ha cercato come meglio poteva di starci dentro. Ciò detto, bisogna ricordare che questo è un esordio, e che eventuali goffaggini possono essere perdonate sul presupposto che c’è almeno la consapevolezza di cos’è venuto prima, l’ambizione di avvicinarsi senza la presunzione di raggiungere. È una prima prova, un esperimento che per vari motivi merita una promozione. Alla fine Cadere parla del dolore come basso continuo nella vita di famiglia: quindi parla di ognuno di noi. In questo senso, merita sicuramente che gli si dia un’occhiata – nell’attesa che l’autore ci regali un risultato più maturo del talento che certamente ha.

Pierpaolo Moscatello

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