Il primo articolo con cui indaghiamo la cosmologia dell’opera di Bufalino, in occasione del suo centenario, approfondisce l’universo poetico e teologico dell’Amaro Miele, raccolta del 1982 che “rappresenta una parte fondamentale del laborioso e stratificato cantiere sorto attorno al nucleo di Diceria dell’untore”.
Lo ha scritto per noi Alessandro Zaccuri, già docente all’Università Cattolica di Milano, collaboratore per le pagine culturali dell’Avvenire, curatore della serie Crocevia per NN Editore nonché stimato romanziere. Con Il signor figlio (Mondadori, 2007) ha vinto il Premio Campiello – Selezione Giuria dei Letterati, e con Lo Spregio (Marsilio, 2016) si è aggiudicato il Premio Comisso e il Premio Mondello.
La poesia ha le sue ragioni, che la prosa non conosce. Vale anche il contrario, certo, ma in misura minore, perché dal punto di vista formale è la prosa a dover giustificare la propria esistenza. Dalla sua, la poesia ha il vantaggio di un assetto riconoscibile e addirittura replicabile, scandito com’è in versi e in metri, in rime e in assonanze. La prosa, invece, è semplicemente quello che non è poesia e si identifica per via di questa negazione paradossale, che sembra implicare uno stato di minorità spesso smentito dal risuonare di quella che Louis-Ferdinand Céline definiva la petite musique dello stile. Risalendo ancora più indietro nel tempo, ci si imbatte nella pratica medievale del cursus, attraverso la quale la tardissima prosa latina si caratterizza per un andamento ritmico che obbedisce a regole precise e canonizzate, come accadrebbe in poesia.
Sono, in estrema sintesi, alcuni dei motivi che rendono tanto interessante la poesia dei prosatori. Si tratta di una categoria provvisoria e perfino ambigua, che può essere invocata per compilare i cataloghi più disparati. Ci sono scrittori quasi perfettamente ambidestri (come Giorgio Bassani e Paolo Volponi, per restare nel Novecento italiano) e altri per i quali la poesia rappresenta un peccato di gioventù (ed è il nome di Leonardo Sciascia a venire in mente). L’apprendistato in versi è un elemento ricorrente, che di solito resta confinato nella dimensione del documento, magari sintomatico, ma privo di una sua effettiva autonomia. In pochi, pochissimi casi le poesie di un autore noto per le sue prose conservano l’evidenza di un’intuizione originaria: di un battesimo, verrebbe da dire, anche nell’accezione crudele di un battesimo del fuoco.
Gesualdo Bufalino appartiene a questa fattispecie rara, sia pure a modo suo, come sempre, e cioè con un’appartenenza svagata e orgogliosa, che si dispiega in tutta la sua combattuta umiltà in L’amaro miele. Apparso da Einaudi nel 1982, a un anno di distanza dall’esordio con Diceria dell’untore, e riproposto in occasione del centenario della nascita dell’autore in un’edizione allestita dalla Fondazione a lui intitolata (a cura di Nunzio Zago e con le illustrazioni di Alessandro Finocchiaro), il libro si presta fin dall’inizio all’equivoco di essere letto come un precedente o un’integrazione del più noto fra i romanzi di Bufalino. Più propriamente, rappresenta una parte fondamentale del laborioso e stratificato cantiere sorto attorno al nucleo di Diceria dell’untore negli anni Cinquanta e protrattosi poi per tutti i Settanta.
Che il legame esista è indiscutibile, ed è lo stesso Bufalino a metterlo in risalto nell’organizzazione di un libro in cui – avverte la nota finale – sono confluiti i versi «sopravvissuti quasi solo per caso alle periodiche fiamme di San Silvestro a cui l’autore fu solito un tempo condannare il superfluo e l’odioso dei suoi cassetti» (p. 121: tutte le citazioni si riferiscono all’edizione Einaudi). Le composizioni cadono in un periodo compreso «fra il ’44 e il ’54», con l’eccezione di una “dedica” e di un “poscritto” che Bufalino colloca nel 1961, e di una manciata di testi – Brindisi al faro, A chi lo sa, Progetto di lode, Io Triumphe, Versi scritti in treno, Versi per uno spettro – la cui datazione, successiva al resto del corpus, risulterebbe incerta. Indizi da accogliere con prudenza, considerata l’abilità affabulatoria alla quale Bufalino ha fatto abitualmente ricorso per proteggere il suo lavoro: non nascondendolo del tutto, ma portandone allo scoperto soltanto un po’, quel tanto che di volta in volta poteva bastare.
Bufalino con Sciascia e i suoi nipoti, 1983
(Gentile concessione Fondazione Gesualdo Bufalino)
Non ci sono dubbi, in ogni caso, che L’amaro miele sia un libro costruito in modo consapevole e compatto: molto differente, anche in questo, dalle prove adolescenziali successivamente confluite in I languori e le furie (Il Girasole, 1995), segnate da un’infatuazione per il simbolismo francese che pure non impedisce al giovanissimo Bufalino di dare prova di sincerità e originalità. Anche scorrendo le pagine dell’Amaro miele, del resto, è pressoché impossibile dimenticarsi di come la formazione dell’autore sia avvenuta attraverso il corpo a corpo con I fiori del male di Baudelaire, ambiziosamente ritradotti dall’italiano al francese in assenza del testo originale e da lì nuovamente riportati in italiano. Allo stesso modo, nei lunghi anni che precedono l’affermazione pubblica di Bufalino sono Les Contrerimes di Jean-Pierre Toulet ad assorbire con discontinua assiduità le sue energie di traduzione.
Dettate da «un moribondo di provincia» (Dedica, dopo molti anni, p. 3), le poesie dell’Amaro miele si organizzano in tre sezioni, di ampiezza studiatamente omogenea.
La prima, Annali del malanno, è a tutti gli effetti un controcanto a Diceria dell’untore, nei cui interstizi si collocano immagini e situazioni sintomatiche, a partire dall’indicazione della «Rocca», il sanatorio in cui il romanzo è ambientato (si veda, in particolare, Stanza alla «Rocca», con l’«inventario della mia morte», p. 8).
Nella parte centrale, Asta deserta, trova spazio la rievocazione di una Sicilia assolata e feroce, contesa fra le cantafavole dei pupari e l’ineluttabilità della vendetta, così ben testimoniata dalla sequenza Qualche canto mafioso, nella quale incontriamo l’espressione «un’unghia nel cuore» (p. 54), che riassume in maniera indelebile la poetica di Bufalino.
Un contraddittorio canzoniere d’amore dà infine consistenza alla terza parte, La festa breve, che si apre con una vistosa ripresa leopardiana (Il risorgimento, p. 78), da mettere in relazione con A se stesso, un altro refrain dai Canti che ironicamente si è manifestato poco prima («Un giorno / sarò forse famoso, / sbaglieranno il mio nome in dieci lingue», p. 73).
Nei versi dell’Amaro miele Bufalino inserisce, come di consueto, preziosismi lessicali («aragne» per “ragni” a p. 10, «angue» per “serpe” a pp. 27 e 31, eccetera) e gioca di sponda tra italiano e francese (a p. 115 si registra un formidabile «siluetta»), concedendosi anche qualche lemma al limite dell’imperscrutabile («alpagio», p. 86, è verosimilmente un tessuto prodotto nella zona di Alpago, nel Bellunese). Ancora una volta, è un procedimento che rivela più di quanto riesca a dissimulare, innescando una vertigine che, come sempre avviene nel Barocco, ruota attorno al vuoto-pieno di Dio.
L’amaro miele è forse il libro nel quale il rovello teologico di Bufalino è ribadito con più insistenza, fino a essere dichiarato con nettezza nel suggello di Poscritto, dopo molti anni (p. 120):
Dio, tu dici, o chiedi in silenzio:
a guisa dei poliziotti dei romanzi,
ho fiutato nel mondo le Sue peste;
in piedi e in ginocchio, beffato e beffardo,
l’ho ferito e chiamato, l’ho perduto e cercato,
ma il delitto dentro la stanza chiusa
s’è ripetuto ogni volta, all’improvviso…
E poi… ma addio, addio, le parole non servono.
Bufalino nell’area archeologica di Kamarina, 1995
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)
È una posizione nobilmente novecentesca, nella quale si avverte un’eco dell’amicizia di Bufalino con il coetaneo Angelo Romanò (1920-1989), un cattolico talmente inquieto da accettare, alla metà degli anni Settanta, di candidarsi nelle liste del Partito Comunista Italiano. Di sicuro, l’antagonismo nei confronti del divino non esclude l’immedesimazione del poeta con un «magro Cristo ragazzo» (Agli amici in armi, p. 30), icona successivamente rovesciata nell’irridente appellativo di «Gesúcrista» riservato all’amata sfuggente (Versi per uno spettro, p. 115).
Com’è prevedibile, le allusioni religiose abbondano nella prima parte, che tuttavia stabilisce la prospettiva dell’intero libro. Emblematica è, per esempio, Preghiera di mezzogiorno (p. 9), che nell’ambito di una quartina passa da un generico vocativo plurale all’esatta invocazione della croce:
Datemi un male senza libri,
datemi un pianto senza specchi,
una croce che sopra mi vibri,
fatta solo di vento di stecchi.
Da qui in poi, Annali del malanno lascia intravedere una tessitura teologica sempre più marcata. Si pensi alla nota in calce a Didascalie per una visita medica (pp. 11-12), che mette in risalto l’analogia con le «stazioni di una Via Crucis popolare» nella versione di «un cantastorie che è lo stesso cristo paziente», tra febbri devotamente contemplate e dolorose cadute lungo il calvario della terapia:
Venite, venite, veroniche,
con l’acqua, le spugne e le lane,
curve angele malinconiche,
governate dalla campana!
Il tema della Passione torna più avanti in Fogli dal diario d’inverno (pp. 28-29), con l’elencazione puntuale di «una madonna / lamentosa», di «una spugna d’aceto e fiele», di «un grido della terra», dei «ladroni». Non sarà inopportuno osservare come i riferimenti al Venerdì Santo non si limitino ad Annali del malanno, ma affiorino anche nelle altre sezioni, come dimostrano il «Cristo chiodato» di Allegoria (p. 65, in Asta deserta) e la duplice dizione «Giuda tu, Giuda io, ci baciamo» in Versi scritti in treno (p. 104, in La festa breve).
Stanno però all’interno di Annali del malanno i testi più espliciti, come Compieta («O Signore, concedimi sull’erba / una morte di cosa»), l’apocalittico Dies illa (p. 37) e Verrà l’angelo ladro, che sintetizza e insieme reinterpreta in un unico verso («Lotteremo sino alla morte», p. 41) la lotta di Giacobbe con il misterioso aggressore descritta nel capitolo 32 di Genesi. Salta all’occhio, nella successione delle poesie fissata dall’autore, la continuità che corre tra Versi scritti sul muro («Più sei lontano e più Ti porto addosso», p. 25), Altri versi scritti sul muro (dove l’implorazione «Dolce Signore, perché ci abbandoni?» annuncia la richiesta di «una donna / che ci schiodi e ci lavi, / un fantaccino cieco che ci vegli, / una resurrezione», p. 26) e la magnifica Parole di Saulo («Questo luogo mi piace per morire. / Cadrò con occhi di pietra. / La Sua fionda non sbaglia», p. 28).
Ma se ci si trovasse nella necessità di indicare un solo verso tra le poesie dell’Amaro miele, la scelta potrebbe ragionevolmente cadere sulla chiusa di Consenso dopo la pioggia (p.14), che segna un momento di precario equilibrio nella «rissa cristiana» cara a Montale, rivendicando così una parentela con i punti più alti della riflessione di Giorgio Caproni. «Sia come vuoi, Tu che mi spii», scrive Bufalino, con una essenzialità di matrice liturgica. E questo, ripetiamo, non è un documento: questo è un battesimo del fuoco.
Alessandro Zaccuri
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