Proseguono le celebrazioni dei cent’anni di Gesualdo Bufalino. L’articolo di oggi indaga il rapporto tra personaggio e autore nelle sue opere, prendendo a confronto anche scrittori come McEwan, Capote, soprattutto Pirandello. È firmato da Alessandro Cinquegrani, professore associato all’Università Ca’ Foscari di Venezia, saggista, autore di articoli e monografie su Bufalino, collaboratore di numerose riviste tra cui l’Indice dei libri del mese, nonché già finalista al Premio Calvino e candidato al Premio Strega col romanzo Cacciatori di frodo (Miraggi, 2012).
Si tratta soltanto di due parole: «Muore (applausi)». È un aforisma del Malpensante, libro del 1987 di Gesualdo Bufalino, che raccoglie massime, pensieri, freddure, spesso caustiche, come in questo caso, ma anche distrattamente significative, ironicamente rivelatorie. Basta soffermarsi sul significato di queste parole e tentarne l’esegesi per comprendere il nucleo portante di un’opera sempre in bilico sul crinale del tragico e sempre trattenuta dalla consapevolezza dell’umorismo.
«Muore (applausi)», dunque. Viene in mente subito il Pirandello dei Sei personaggi, quando il Capocomico commenta le battute di quelle strane creature che si sono presentate al suo teatro, e più la storia si fa tragica, più la Madre piange disperatamente, più il Padre è in imbarazzo, più la Figliastra è disperatamente civettuola, più lui grida continuamente «bene!», «benissimo!».
È un problema di disposizione del lettore/spettatore, che ha a che fare con la sospensione di incredulità. Se si è vicini al personaggio, se si patisce con lui in un rapporto empatico, se lo si interpreta come un personaggio-uomo che, lo dice Debenedetti, «gira il risvolto della giubba, esibisce la placca dove sta scritta la più capitale delle sue funzioni, che è sempre il suo motto araldico: si tratta anche di te», allora la sua morte, la sua sofferenza, ricadrà su di noi imponendoci il lutto. Ma se, viceversa, si guarderanno i personaggi dalla giusta distanza, riconoscendone i meccanismi drammaturgici, anche nella misura in cui abbiano effetto sul lettore, allora la morte efficace sulla scena o sulla pagina sarà riconosciuta come un’eccellenza: applausi.
Stare dentro o stare fuori: essere il lettore persuaso dal testo e da questo avvolto in una schiuma emotiva, oppure stare fuori dalla storia, acconsentire alle malie della retorica, apprezzare il colpo di teatro, l’improvviso precipizio verso un epilogo ben costruito? Su questa ambiguità, tra le altre, si regge il lettore di Bufalino che adotta costantemente antidoti alla persuasione richiamandolo fuori dal testo attraverso l’ironia, attraverso lo stile barocco, tenta sempre di essere lui a dialogare con il lettore anziché lasciare liberi i personaggi di farlo liberamente.
Nessun effetto di realtà è necessario perché i personaggi non sono vivi, sono i fantasmi di una retorica di proprietà dell’autore. Per questo i personaggi non hanno voce propria, per esempio, ma parlano tutti quella lingua ricercata e mirabolante che nessun essere umano – eccetto lo stesso Bufalino che parlava come scriveva – è in grado di possedere. Non si preoccupa, l’autore, di far diventare i suoi personaggi credibili, realistici o almeno verosimili, perché non chiede al lettore di considerarli specchi di persone reali. E se è la retorica a trionfare, come accade soprattutto nei testi a «dominante postmoderna» (McHale), ad ogni morte ben scritta seguirà, virtualmente, un applauso rivolto al suo autore
Bufalino nella sua casa, 1988
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)
Ci ha insegnato il modernismo – e Pirandello ne era un campione, ma anche Virginia Woolf in quello splendido saggio che è Mr. Bennett and Mrs. Brown – che tra autore e personaggio c’è una complicità e un conflitto, un’ostilità e una fornicazione, che il lettore subisce sintonizzandosi di volta in volta sull’uno (applausi) o sull’altro (muore). Per Bufalino (e per gli scrittori postmoderni) a vincere è sempre l’autore, ma questa affermazione non significa nulla se non è preceduta da un interrogativo: chi è l’autore? Perché, come esistono due lettori, quello persuaso che si sintonizzerà sulla parola Muore e quello intriso di retorica che si sintonizzerà sulla parola applausi, così come esistono due diverse coordinate narratologiche, il teatro (muore) e il metateatro (applausi), esistono anche due tipi molto diversi di autore con i quali è necessario fare i conti.
Genette e la narratologia ci aiutano poco a comprendere questa duplicità: non stiamo facendo i conti, infatti, col narratore, categoria tecnica, se così si può dire, interna al testo, ma più esattamente con l’autore o con una creatura intermedia che comunque accentua la complessità. Piuttosto, è ancora Pirandello ad esserci d’aiuto. In una novella pubblicata nel 1935 sul Corriere della Sera, intitolata La prova, lo scrittore girgentino racconta la strana storia di un miracolo.
Due orsi vengono mandati da Dio a mettere alla prova due religiosi. Gli animali li incontrano su una strada di montagna e si avvicinano con fare minaccioso. I religiosi dapprima sono spaventati e interdetti, poi, forse per imbarazzo o per paura, a uno dei due scappa un sorriso che imprevedibilmente scioglie la tensione. I due uomini decidono quindi di procedere sulla strada come se i due animali non ci fossero. Così inconsapevolmente superano la prova: hanno avuto fiducia nell’aiuto di Dio e gli orsi si ritirano.
Ma ecco la svolta: i due religiosi ridono fragorosamente di quanto avvenuto senza sapere che in questo modo si prendono gioco di Dio. I due orsi si dimostrano particolarmente irritati: «Certo in quel momento – scrive Pirandello – i due orsi attesero che Dio, sdegnato da tanta incomprensione, comandasse loro di tornare indietro e punire i due sconsigliati, mangiandoseli», e aggiunge: «Confesso che io, se fossi stato dio, un dio piccolo, avrei fatto così». Ma questo non accade: «Ma Dio grande aveva già tutto compreso e perdonato», e conclude: «nessuno meglio di Dio può sapere per continua esperienza che tante azioni, che agli uomini per il loro corto vedere paiono cattive, le fa proprio Lui, per i suoi alti fini segreti, e gli uomini invece credono scioccamente che sia il diavolo».
La novella ha l’aspetto della favola innocua, ma nasconde qualche insidia e qualche significato in più, che gravita attorno al pronome io: «Confesso che io». Questo io compare nell’incipit della novella, con una strana dichiarazione: «Vi parrà strano che io ora stia per fare entrare un orso in chiesa. Vi prego di lasciarmi fare perché non sono propriamente io». L’io è il narratore, si dirà, con in mano Genette, ma non è soltanto questo perché io «non sono propriamente io», perché, verrebbe da aggiungere, posso fare succedere cose mirabolanti e incredibili all’interno di questo scritto, anche se paiono strane, e posso farlo perché io sono l’autore, e non solo il narratore. Eppure l’autore, abbiamo imparato a scuola, è la persona fisica il cui nome è sulla copertina del libro, mentre il narratore, ci hanno detto, è il responsabile della narrazione. Nondimeno, la percezione è che quell’orso sarebbe entrato in quella chiesa, anche se il narratore fosse stato un altro, magari un sacerdote o, perché no?, l’orso stesso. Responsabile del miracolo, dunque, è l’autore, e l’autore è – come Bufalino insegna – il Dio dell’opera.
Bufalino con Valentino Bompiani dopo la vittoria dello Strega, 1988
(Gentile concessione Fondazione Bufalino)
Ma nel finale del testo questo Dio si sdoppia nel dio piccolo che avrebbe potuto vendicarsi dell’irriverente risata dei chierici, e un dio grande che invece li comprende e li perdona. Scrive Debenedetti su questo passaggio: «Ebbene: di fronte alle sue figure, Pirandello punisce sempre con la mentalità di quel dio piccolo, di quel dio-personaggio». Ma questo Pirandello dio-personaggio che dice io nel testo afferma che «non sono propriamente io». È un altro.
Perché in fondo Pirandello, come Bufalino, come forse ogni scrittore, è l’autore-uomo che prova compassione per i suoi personaggi come un dio grande ma è anche colui che macchina la storia e punta a una sua efficacia sorprendente come sarebbe stato un epilogo in cui gli orsi avrebbero mangiato i prelati. L’autore grande è quello che con compassione umana verso i suoi personaggi scrive con gli occhi lucidi «muore», l’autore piccolo interessato non già alla vita dei personaggi ma all’efficacia della storia, proprio in quel punto scrive o pensa «(applausi)».
La cifra dell’intera opera di Gesualdo Bufalino consiste proprio nell’affondare in questo iato, in questa ferita, questa doppiezza insanabile tra autore grande e autore piccolo. Bufalino non si dà pace di questo conflitto, continua ad affrontarlo con un implacabile senso di colpa verso le sue creature, un senso di colpa che può solo tentare vanamente di esorcizzare con l’ironia.
Si tratta, del resto, del paradigma di Orfeo, alter ego vicario e nemico, che l’autore denigra e addita come colpevole. «Orfeo s’era voltato apposta», conclude la sua storia Bufalino1, e così Euridice «muore» e a Orfeo restano gli «applausi» per una tragedia inconsolabile e maiuscola. Orfeo è il dio piccolo, che sacrifica la propria vita sull’altare dell’arte, che rinuncia alla propria compassione per seguire le meccaniche della creazione.
È noto che questo Orfeo del Ritorno di Euridice è una versione mitologica dell’autore della Diceria: la stessa colpa si attribuisce l’io di quel folgorante romanzo d’esordio, quella di aver sacrificato la sua Marta-morte per potete scrivere un canto bellissimo, e aver scritto così, o almeno sottinteso, dopo la parola «muore» la didascalia «applausi». Anche l’io della Diceria s’era voltato apposta, aveva sacrificato Marta e tutti gli altri per la sua salvezza. È il senso di colpa del testimone sopravvissuto, si è detto, perché in fondo c’è un sostrato di realtà in questa storia, ma non è tanto o soltanto questo: è il senso di colpa dell’autore nel confronto coi suoi personaggi. Nel gioco del romanzo accade esattamente ciò che accadeva nell’Immortale di Anderssen, a cui si ispira la partita a scacchi col Magro: il sacrificio di donna. Poco importa che sia o non sia accaduto davvero, al romanziere Bufalino quel sacrificio fa gioco, funziona rispetto alla costruzione narrativa, è in qualche mondo romanzesco e perciò efficace, e raccontare che «muore» significa procurarsi degli «applausi». Mentre l’uomo – il dio grande – è umiliato da questa condizione, travolto da lacrime e dolore per l’amata perduta, l’autore – il dio piccolo – esulta per la propria arte.
In un romanzo che Bufalino non ha potuto conoscere, Espiazione di Ian McEwan, l’autrice diegetica salva i propri personaggi all’interno del romanzo dopo averli condannati nella realtà: è questa la sua espiazione. Ma in Bufalino non c’è nessuna espiazione, resta solo la colpa. La Briony di McEwan sceglie di dare la precedenza alla realtà sulla finzione, e assoggetta la sua finzione alla ricaduta che potrebbe avere sulla realtà: il dio grande prevale sul dio piccolo. Bufalino fa il contrario: il dio piccolo che domina la narrazione sembra impossessarsi delle esigenze di compassione e pudore del dio grande, l’uomo, che dunque fa un passo indietro rispetto ai fatti che gli sono successi.
Bufalino con Gabriele Lavia, Monica Guerritore e Michele Placido sul set del film La Lupa, 1995 (Gentile concessione Fondazione Bufalino)
Ne parlava anche Roland Barthes quando in un celebre articolo si riferiva alla Morte dell’autore, dove si mettevano a confronto le figure che lui chiamava autore e scrittore: il primo è l’uomo che «precede [il libro], pensa, soffre, vive per esso», il secondo, «“scrittore” moderno – il soggetto della scrittura – nasce invece contemporaneamente al proprio testo; non è in alcun modo dotato di un essere che precederebbe o travalicherebbe la sua scrittura, non è affatto il soggetto di un libro che ne costituirebbe il predicato; non esiste altro tempo se non quello dell’enunciazione, e ogni testo è scritto per sempre qui e ora». L’autore che per Barthes è morto è il dio grande, l’uomo che patisce per i suoi personaggi, lo scrittore, è il dio piccolo, colui che segue e domina e gestisce a ogni pagina la narrazione.
Bufalino è l’uomo invaso da questa forza satanica o divina. Lo scrive chiaramente nell’ironico racconto che apre la raccolta che si intitola proprio così: L’uomo invaso. «Deve trattarsi d’una creatura abortita, che s’aiuta come può a non morire, e succhia i miei succhi umani, usurpa i miei ricordi, per questo: per non morire. Dovrò abituarmi a viverci insieme. Da nemico e da amico». Come il dio piccolo di Pirandello, questa figura che invade l’uomo, avrà il potere – divino o diabolico – di fare miracoli: «Già mi vedo guidare con la sua mano paralitici e ciechi fra i caroselli del traffico; annunciare maternità benedette di porta in porta con un giglio nel pugno; vegliare col dito sulle labbra davanti alle camere dei moribondi; un’alba, con una spada fiammeggiante, vincere il drago»: può farlo perché il suo mondo è un universo fittizio abitato costruito da sé.
Di vendere l’anima al diavolo, parla anche Javier Cercas in un libro recente, L’impostore, riferendosi, a partire da uno spunto dell’Avversario di Emmanuel Carrère, a David Copperfield in cui Dickens cambiò i caratteri di un suo personaggio perché la Miss Mowcher reale non ne avesse conseguenze negative e così «lo scrittore inglese non solo vi si salvò come scrittore, ma anche come persona», in confronto col Truman Capote di A sangue freddo che «assicurava ai suoi due amici e personaggi che stava facendo tutto il possibile per salvarli […]; però, allo stesso tempo, lo scrittore sapeva che la morte dei due imputati era la migliore conclusione possibile della storia, il finale che esigeva il suo capolavoro, perciò pregava in segreto in suo favore e arrivò ad accendere ceri alla Madonna perché avvenisse», finché accade davvero e «il frutto letterario di questa sua aberrazione morale fu A sangue freddo: un capolavoro». «Muore (applausi)», direbbe Bufalino.
Conclude Cercas: «Ero disposto a condannarmi per scrivere un capolavoro?». È, questa, la domanda di natura morale ma anche squisitamente letteraria, che, da Diceria dell’untore all’Uomo invaso e poi, con diversi gradi di mitopoiesi finzionale, fino alle Menzogne della notte e Tommaso e il fotografo cieco, innerva tutta l’opera di Gesualdo Bufalino.
Alessandro Cinquegrani
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1 Il ritorno di Euridice, racconto incluso nella raccolta L’uomo invaso, Bompiani, 1986