I tuoni – Tommaso Giagni
(Ponte alle grazie, 2021)
La periferia è il nuovo centro città, quantomeno nello spazio fittizio dei racconti. I narratori ne sono attratti quanto i turisti tedeschi sono attratti dai sandali, gli anziani dalla briscola, entrambi da uno spicchio di ombra nel pieno di un mezzogiorno d’estate. Lo si nota nelle serie TV e lo si nota nei romanzi. Tommaso Giagni, nel suo I Tuoni (Ponte alle grazie) decide di raccontare la periferia con uno sguardo neutro e trascendente, tanto che il quartiere in cui è ambientata la storia si chiama proprio Quartiere: un costrutto narrativo frutto evidentemente della scelta di rendere l’ambientazione quanto più universale possibile.
Il Quartiere si compone a sua volta di realtà più piccole e parziali (Spina, Rettangolo e Grotta) che insieme formano un microcosmo apparentemente autosufficiente, ma in verità aperto: al confronto (col resto del mondo, col resto di Roma), ma soprattutto al conflitto, che si accende col quartiere confinante, il quale, non vivendoci dentro gli ultimi, ma i penultimi da poco socialmente decaduti, possiede il privilegio di avere un nome: Verde respiro.
Nel raccontare le storie di Manuel, Flaviano, Abdou e Donatella, Giagni descrive quindi il contrasto fra la rabbia di chi ha visto disattese le promesse che gli erano state rivolte e la disillusione di chi promesse non ne ha mai ricevute. È in questo modo che Verde Respiro diventa l’antagonista perfetto, frustrato dalla sua residenzialità monca, da un parchetto che dovrebbe esserci e non c’è, da un passato dorato dei suoi abitanti di cui resta soltanto il ricordo e il racconto.
Per la maggior parte del romanzo il lettore passeggia nella quotidianità del Quartiere e dei protagonisti, guidato da un narratore che sa tutto e racconta tutto, forse a volte un po’ troppo. Se le molte parentesi disseminate per il testo sono spesso occasione per far esplodere il talento poetico, quasi aforistico, dell’autore, come quando scrive che «un velo può offuscare la vista come una tenda o agevolarla come una nuvola sul sole» (p. 39), altre volte ci informano in maniera un po’ troppo didascalica sui dettagli e il contesto, come quando servono a dichiarare provenienza e professione dei genitori di Donatella (Cfr p. 92-3). In linea di massima, però, il narratore onnisciente, con le sue incursioni nei pensieri dei personaggi, i suoi giudizi delicati sul sociale e l’umano, le eventuali divagazioni temporali e tematiche, è una scelta vincente, consente di entrare negli interstizi di una realtà sociale complessa e negli angoli più bui delle menti di chi quella realtà la vive ogni giorno.
Le tre differenti provenienze dei protagonisti maschili sono un’evidente citazione a L’odio di Mathieu Kassovitz e rendono il romanzo di Giagni una sorta di L’haine sulle sponde dell’Aniene, con una curiosa assonanza nel suono delle due parole.
Come Vinz, Flaviano è “l’autoctono” del gruppo, romano non solo per residenza, ma anche d’origine. Anche lui possiede una certa rudezza, che tuttavia il lettore intuisce sin da subito essere soltanto di facciata, nella misura in cui è controbilanciata dalla professione di pianista e dalla toccante descrizione dei suoi momenti intimi e privati.
Manuel è nordafricano come Said, è appassionato di elettronica e informatica e sogna di farne un lavoro più soddisfacente di quello attuale. Sopra di lui, però, pende il negozio di ortofrutta di famiglia e le ambizioni del padre rigidamente confinate al mondo della verdura.
Infine, c’è l’ivoriano Abdou, come Hubert è nero e come Hubert cerca di ritagliarsi uno spazio tranquillo nella logica sociale del Quartiere. Ma più che altro ama la solitudine delle sue esplorazioni urbane, rotta soltanto dalla compagnia del suo husky siberiano Pur. Abdou è il più introverso, forse perché i ricordi di un viaggio che è più un salto nel vuoto che una traversata lo attirano di continuo nei meandri della sua coscienza, o forse perché la vita che faceva, la vita che fa e quella che farà hanno bisogno di introspettivi e continui confronti. Dunque, come ne L’odio anche qui ci sono tre personalità diverse e complementari sullo sfondo di un’unica atmosfera periferica.
Ne I tuoni c’è lo stile preciso e misurato di Giagni, c’è un andamento narrativo che si prende il tempo di andare a fondo negli animi dei personaggi o tornare indietro a raccontare i loro passati, c’è un lessico ampio e variegato, in grado di toccare vette alte nel narrato, salvo poi entrare agevolmente nella lingua vera e viva dei dialoghi. Nonostante tutto questo l’elemento dominante del romanzo resta il tema della violenza, una violenza esplosiva che il peritesto propaganda e alimenta dalla quarta alla copertina, fino al titolo stesso. Il modo in cui Giagni usa la violenza è l’aspetto più interessante del libro. L’autore la depotenzia disperdendola per il testo, in un fight club itinerante, nelle gerarchie di una criminalità minore e ininfluente, in tutta una serie di atti violenti mancati, che restano provocazioni o si risolvono in piccole reazioni quasi involontarie, come un sasso lanciato quasi alla cieca contro un indesiderato visitatore del Quartiere.
Non per questo manca il lato esplosivo della violenza. C’è, ed è pure tragico. Ma è una tragedia ironica e quasi inaspettata, nonostante sia il naturale sbocco del conflitto, sebbene sia stata annunciata e pubblicizzata. Sono questi i tuoni del titolo, quelli di una tempesta che arriva dopo pagine di quiete. Una quiete amara, ingiusta e politica. Mentre altre storie raccontano una periferia fatta di plastica e luoghi comuni, Giagni si prende gli spazi di questa violenza e di questa quiete per raccontare una periferia fatta di carne, che assomiglia sempre di più alle banlieue parigine e sempre di più esige una voce e un racconto adeguati.
Giuseppe Vignanello