Randagi, Marco Amerighi
(Bollati Boringhieri, 2021)
C’è una specie di strana energia che attraversa il nuovo romanzo di Marco Amerighi e che si sprigiona già dalla prima pagina: sarà colpa di quello “scangeo infelice” che grava sulla famiglia Benati e che si rivela subito come il bizzarro motore di una storia che si preannuncia tutt’altro che placida; sarà la frenesia con cui viene immediatamente snocciolata una genealogia di insolite scomparse – o fallimenti? – dei membri maschili di quella stirpe di maledetti; sarà la presenza di un telegramma della Prima Guerra Mondiale, i post-it, le cartoline o gli sms che si insinuano nella veste grafica del libro conferendo movimento inaspettato e, talvolta, titillando la memoria di chi è stato giovane nei primi anni del Duemila. Sono tante, in realtà, le cose che rendono il secondo romanzo dell’autore, uscito a fine agosto per i tipi di Bollati Boringhieri, carico e straripante di eccezionale vitalità.
Siamo a Pisa nei primissimi anni del Duemila e Pietro Benati, figlio di Berto Benati, scomparso nel 1988 durante un tour promozionale per un farmaco contro il diabete e riapparso dopo quattro settimane con il mignolo della mano destra mozzo – cosa che gli valse il soprannome di Mutilo -, e nipote di Furio Benati, sparito in Etiopia nel 1936 e poi riemerso miracolosamente dagli inferi della guerra, sa fin da piccolo di portare il gene che lo obbligherà, un giorno, a dileguarsi. Pietro, però, si sente diverso: sente di poter trovare un rimedio al caos della sua stramba famiglia e ne è ancor più sicuro dopo una visione profetica. Durante il primo saggio di pianoforte della sua vita, infatti, la visione di un condor con occhi rossi che, ad ali spiegate, vola sulla sua testa e poi si posa su una chitarra, viene presa per la rivelazione del suo destino di chitarrista. Nell’inseguire quella che crede essere la sua strada, però, per quanto impegno e dedizione ci metta, Pietro colleziona un fallimento dopo l’altro.
Per tutta la prima parte del romanzo, aleggia su Pietro il peso di un retaggio familiare, dell’eredità di un destino scritto e subìto che lo rende impermeabile alla vita. Tutti, nella sua famiglia, hanno combinato qualcosa: che sia stato accumulare debiti in attività di dubbia liceità, come il padre, o eccellere in qualsiasi ambito della vita, come il venerato fratello Tommaso, tutti, in qualche modo, hanno vissuto. Pietro, invece, per la sua innata e oltremodo temuta predisposizione al fallimento, non sapendo che strada prendere, decide di non prenderne nessuna e chiudersi al mondo, dedicando le sue poche qualità a un videogioco sui pirati. Scomparendo, quindi, un poco alla volta.
“A differenza di quelle del Maggiore Furio e di Berto il Mutilo, la sparizione di Pietro non si compì dal giorno alla notte né fu accompagnata da un insondabile mistero; lo avvolse, invece, poco alla volta, come una nebbia su una grillaia dopo un temporale estivo.”
Un barlume di rivolgimento si ha nella seconda parte del romanzo, quando, a seguito di uno scandalo che, come se non bastasse, si abbatte sulla famiglia Benati, Pietro decide di partire per un Erasmus a Madrid. L’incontro con Laurent, ex surfista francese ora gigolò dedito ai piaceri più eccentrici, e Dora, che porta il nome di un condottiero ed è ossessionata dalla perdita del padre, cambierà per sempre la sua vita. Randagi anche loro, animali feriti allontanatisi dal branco: è insieme a loro che Pietro capirà, a sue spese, che un destino in apparenza irreversibile può essere quantomeno affrontato, e che scomparire non è necessario, se solo si è disposti ad accogliere altre vite nella propria.
In un certo senso, quella che colpisce Pietro non è una maledizione che riguarda solo la sua famiglia, ma la condanna a scomparire riguarda una generazione intera: quella dei nati e cresciuti dopo il G8 di Genova, dopo gli attentati terroristici, i movimenti studenteschi – elementi di realtà che emergono silenziosamente nella trama e che fanno intendere che, verosimilmente, i Benati potremmo essere noi. Siamo noi che inseguiamo le promesse di un destino glorioso mentre tutto il mondo cade a pezzi; siamo noi che tra queste rovine non siamo autorizzati a fallire e dunque brancoliamo tra esse in cerca del nostro posto nel mondo; siamo noi, le generazioni randagie, che errano come fiumi in piena, sgangherati e scoordinati, senza approdo alcuno, in cerca del mare nero in cui scomparire.
“A occhi aperti pensò a quanto sarebbe stato meraviglioso poter scoperchiare il pavimento dell’abitazione dei suoi nonni e il tetto del condominio e librarsi in volo sulla città in festa: sorvolando i portoni, e le finestre, e gli archi, e i ponti del centro lavati dal baluginio arancione di migliaia di lumini, e la Torre rischiarata dalle padelle a olio; sfiorando le teste dei curiosi ammontati sulle spallette dell’Arno per vedere i fuochi d’artificio sparati sulla Cittadella; finchè con gli occhi colmi di luce avrebbe avvertito il suo solito bisogno di allontanarsi da tutti e allora sarebbe planato sul pelo del fiume e avrebbe semplicemente seguito la corrente, verso la foce e poi oltre, fino al punto in cui il mare si fa nero.”
Questa storia di formazione (e) di una generazione è raccontata in terza persona con uno stile libero che a lunghe bracciate dentro le ferite dei personaggi alterna momenti di respiro e sguardi sullo spazio in cui si muovono, nuotando in un impasto narrativo che mescola giocosamente (e molto intelligentemente) finzione e realtà. Spesso si creano scene divertenti e grottesche, che ricordano le gag di alcuni film muti americani: le azioni vengono esasperate e i personaggi occupano tutto lo spazio attorno, lo esplorano e ci giocano, risultando estremamente veri e vivi. Randagia è, in questo coraggioso romanzo, la lingua di Amerighi, brillantemente errante ed esplorativa, imprevedibile e magnetica: libera.
Tuttavia, un antidoto alla maledizione della scomparsa c’è, sembra dirci l’autore, e risiede, sembra, nella possibilità di liberarsi: dalla paura di fallire, di decidere, di accogliere e, dunque, di vivere. Liberarsi da storie che altri hanno scritto per noi, dai desideri che altri hanno confezionato per noi: liberarsi dal Padre e dal suo lascito tutto. C’è un elemento, nel romanzo, che torna spesso, ed è l’acqua: acqua di fiume e di mare, che ferisce, invalida, ruba, culla e infine libera. Fluidi sono i personaggi, tortuosi come il letto di un fiume che sembra girare a vuoto ma che, prima o poi, troverà uno sbocco, un punto d’arrivo, un mare. Termina così il viaggio di formazione di Pietro: solo nella terza e ultima parte del libro l’ultimo erede dei Benati si libera da un destino che sembrava irreversibile. L’acqua lo affranca da una verità che non gli appartiene e, finalmente, si appropria della sua storia.
Beatrice Palmieri