Spazio-tempo e conflitti nei racconti di Francesco Pecoraro

Camere e stanze, Francesco Pecoraro
(Ponte alle Grazie, 2021)

camere e stanzeSecondo il filosofo francese Henri Bergson la responsabilità più grande di tutta la metafisica occidentale è quella di aver spazializzato il tempo. Un tempo spazializzato è un tempo frammentato, pensato non come lineare bensì come giustapposizione di istanti separati l’uno dall’altro. Potremmo dire che nei racconti di Francesco Pecoraro raccolti recentemente nel volume Camere e stanze, edito da Ponte alle Grazie, questa visione viene meno. Non tanto perché Pecoraro riporta sulla carta una fluidità indivisa del tempo – c’è anche quello, a tratti – quanto piuttosto perché lo spazio riconquista il suo ruolo di contesto influente. Lo spazio non è (solo) il luogo entro il quale avvengono le cose, lo spazio è parte integrante delle cose.

Di questa centralità dello spazio se ne ha piena coscienza fin dal primissimo racconto della raccolta – “Camere e stanze”, appunto – dove un professore di Sociologia dello spazio viene convinto dalla sua giovane compagna a festeggiare i suoi cinquant’anni. Si troverà la casa invasa di persone, le stanze a soqquadro, i suoi libri gettati a terra, la sua intimità violentata e compromessa.

Questo, da sociologo dello spazio, era in grado di formularlo chiaramente: in fondo la città non è che un sistema complesso ed esteso di camere e stanze. Quando faceva lezione diceva ai suoi studenti che noi percepiamo il mondo esattamente ed esclusivamente così: per camere e stanze, per unità e singolarità spaziali in una successione, anzi in un sistema di luoghi. (p. 17)

Il volume, di 470 pagine, raccoglie tutta la produzione di racconti di Pecoraro: la prima sezione è la riedizione della sua prima raccolta Dove credi di andare; la seconda sezione è composta da un racconto lungo intitolato Tecnica mista; la terza e ultima sezione, Altre forme, raccoglie racconti inediti o già pubblicati su riviste cartacee e online. La suddivisione è netta e anche nelle intenzioni letterarie sembra esserci stato un passaggio da Dove credi di andare a Altre forme. I racconti della prima sezione sono infatti più omogenei, rotondi, tendono a spiegare e a porre solide basi alla narrazione; i racconti invece ricompresi nella terza parte sono meno esaustivi, più brevilinei e lasciano intatto al loro interno un enorme spazio di non-detto.

Eppure in tutti si ritrova una specifica modalità di approccio al reale, una contestuale voglia di rivalsa nei confronti della vita che viene abbracciata da un amore per se stessa sconfinato. I racconti di Francesco Pecoraro sono attraversati da questa tensione, da un insanabile conflitto che non può che essere creativo.

I pittori non sanno parlare di pittura – e mai e poi mai della loro pittura – così come i tennisti non sanno parlare di tennis, del loro tennis, perché non c’è distanza tra quello che fanno e quello che possono dirne. Sanno troppe cose sul come fanno e troppo poche sul perché procedono in quel modo invece che in un altro. (pp. 115-116)

Abbiamo detto dell’importanza dello spazio – si ricordi, ad esempio, anche l’ultimo racconto, “Antonella ti amo”, dove c’è uno straordinario compendio di Roma, degli infiniti mondi che la compongono e la vivono, delle difficoltà e delle infinite possibilità che la città promette e non mantiene –, ma ovviamente anche il tempo è ben presente. Non solo un tempo della memoria e del ricordo, ma anche un tempo in quanto presenza: ogni cosa avviene in un momento preciso e identificabile che si pone intorno e dentro gli eventi. I rari momenti in cui il tempo emerge come elemento del ricordo sono spesso sublimi, raffinatissimi, come questo contenuto nel racconto “Non so perché”:

Ecco, questa cucina me la ricordo, su quella parete, a quel chiodo, il nonno Empedocle ci appende una beccaccia, morta stecchita, col becco lungo, gli occhi chiusi, le palpebre grigie rugose. […] Alla fine la beccaccia cominciò a puzzare e il nonno se la annusava soddisfatto e diceva è quasi pronta. Mai è sparito quell’odore dalla memoria, il puzzo della beccaccia si è scavato una nicchia e ci è restato per sempre. (p. 304)

I due gesti del nonno, ossia lasciare il volatile appeso in cucina e omaggiarlo ogni giorno con cura, si traducono in un odore che – ancora una volta – si fa spazio, diventando un elemento quasi tangibile. Nei racconti di Pecoraro ci si tocca, i corpi agiscono, vivono, pulsano, puzzano e sono il vettore centrale di ogni flusso di vita. Nel bellissimo “Cormorani”, il racconto che potremmo definire il più “carveriano” della raccolta, tutto si scopre pezzo a pezzo, un cappuccino dopo l’altro, un farmaco dopo l’altro. Si ascolta ciò che appoggia per terra e si è tesi a voler capire cosa invece vola in cielo. Un’altra duplicità conflittuale che non si risolve mai definitivamente, ma ogni possibile movimento rappresenta un elemento importante da indagare e spiegare.

L’alto e il basso, il tempo e lo spazio, i sentimenti e il corpo, l’esterno e l’interno, l’acqua e il vento, l’inverno e l’estate, la vita e la morte: dall’interno di ognuna di queste coppie prende vita una storia, uno spunto, una possibilità di redenzione. «Mi suicido perché non tollero la contraddizione tra la matematica e il catarro, tra l’astrazione e la merda, tra l’idea di purezza e la sugna umana» (p. 311) dice nell’ultima lettera il suicida del racconto “Mi suicido per via dei miliardi di anni”. Un uomo che sembra Platone, poiché anche il grande filosofo greco fa dire più volte ai suoi personaggi di trovare un’unica contraddizione nella Teoria delle Idee: persino lo sporco, i capelli e il fango nell’Iperuranio dovevano avere un’Idea perfetta da cui derivare. Per Platone questo era un problema, per la letteratura è forse il dilemma più insolubile e interessante da indagare, tra camere e stanze, cercando di proteggerci.

Saverio Mariani

In copertina: Photo by Steve Johnson on Unsplash

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