Sulla cattiva strada, Sara Benedetti
(nottetempo, 2021)
«C’è amore un po’ per tutti, e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada». Così canta De Andrè nell’ultimo verso della canzone a cui è ispirato il titolo del primo romanzo della già sceneggiatrice Sara Benedetti, Sulla cattiva strada, edito da nottetempo lo scorso ottobre. Ed è certamente vero che, lasciandosi guidare tra le strade tracciate dalle vite dei vari protagonisti del libro, di amore, nelle sue molteplici sfumature, se ne trova tanto. Il libro stesso è una dichiarazione d’amore dell’autrice per Genova – città che prima della conclusione del documentario Liberi a meta(‘) era «solo un punto sulla traiettoria del pendolarismo» tra le sue due città, Roma e Torino; è anche, questa, una storia d’amore tra i caruggiai, ovvero i personaggi che la popolano, e la loro città di mare: ma come tutte le storie d’amore, è fatta di ambiguità, dolore, fughe e ritorni, sogni e promesse mancate.
Quella della strada è una metafora molto utilizzata in riferimento alla vita e alle diverse possibilità che essa contiene in potenza: che strada prendere, tra le tante, e dove mi condurrà quella che sceglierò? Ecco, tra le varie cose che l’autrice sottrae alle tenebre dei vicoli genovesi e offre chiaramente all’attenzione del lettore, una è sicuramente questa: e cioè che, a volte, molto più spesso di quanto non si creda, lo spettro di queste possibilità è limitato ad una strada a senso unico. Tedesco, Morango, Pagano, Lateef, Jamila, Toso, Lord Jim, tutti i personaggi di questo romanzo sembrano fatalmente condannati a poterne imboccare solo una di strada: quella sbagliata, quella cattiva, quella che li porterà a fare la carriera di “uno con la vita dentro e fuori”, vale a dire dentro e fuori dal collegio, prima, e dal carcere o la comunità, poi.
Lungo un arco temporale che va dal 1988 al 2018, sullo sfondo di una Genova che si trasforma a causa di un incessante processo di urbanizzazione e migrazione, e che incassa i colpi del G8 e del crollo del Ponte Morandi, l’autrice sdipana le vite dei fratelli di strada, i ragazzi del quartiere della Maddalena. La loro è un’onomastica variopinta e peculiare: spesso non ne sappiamo il vero nome perché la strada è stata il loro battesimo, salvezza e maledizione allo stesso tempo. Uno di questi è Tedesco, chiamato così per il semplice fatto di essere l’unico biondo tra i vicolari: la sua storia fa da perno a tutte le altre a cui l’autrice ha voluto dare voce, dando vita a un romanzo corale che si alimenta di narrazioni marginali e piuttosto scomode.
Tedesco era diverso: non aveva mai voluto distruggersi, amava troppo la vita che però, nei vicoli, senza padre e con pochi soldi, era lontana da quella che lui pensava fosse la felicità. E così arraffava, piccoli piaceri, denaro, occasioni, perché nessuno gli avrebbe regalato niente.
Spaccio, rapine, amori violenti, donne “di vita”, scontri tra gang per il territorio, giornate passate al bar di Vincent in attesa di uscire a fare danni: ogni giorno è un arrabattarsi per arrivare a sfangarla per quelli della Maddalena, fratelli di strada con alle spalle famiglie di sangue assenti o spezzate, padri morti in carcere, mai conosciuti – «buffa questa cosa dei padri. O se ne andavano loro o dovevi andartene tu». Le loro realtà complesse sono definite entro l’orizzonte dei vicoli in cui sono cresciuti come cani sciolti, protetti dal mondo esterno che, visto dalla loro prospettiva, non costituisce un’alternativa più di tanto allettante. Le leggi di quella che per i più è la strada “buona”, o perlomeno quella più normale, paiono inconciliabili con quelle di chi è cresciuto su strade alternative.
L’articolo 30 del Codice penitenziario concedeva il permesso straordinario solo in caso di decessi di parenti e non c’era modo di convincere il direttore del carcere che quando morivano certe persone era peggio che se moriva un parente, perchè magari tuo padre non l’avevi mai conosciuto e invece a lei, una notte, avevi messo in mano la tua vita.
Senza giudizio né giustificazione, lo sguardo documentario di Benedetti penetra nelle sfumature più ombrose e ingarbugliate delle esistenze possibili, quelle senza un Dio né un Padre, conferendo ai suoi personaggi una umanità profonda e intensa come il mare che è a un passo da loro, così vicino ma così lontano allo stesso tempo. È Lord Jim, quello col mare negli occhi e la letteratura nel nome, il personaggio che più rappresenta questo doloroso dualismo: è grazie alla lettura di Conrad, Hemingway e Dante che Jim si può prefigurare il desiderio di riscrivere la propria leggenda, di salpare verso altri lidi, altre strade lontano dai vicoli, a bordo della sua sgangherata nave Incanto, ma al contempo è intrappolato nell’impossibilità di scampare a quel buco nero.
Sapeva che c’erano persone al mondo, e nei vicoli ce n’erano più che da altre parti, con un buco nero dentro. Un buco che ti nasceva nel cervello o nella pancia per le cose che avevi visto e che ti avevano fatto fin da quando eri piccolo. Ed era difficile tirarsene fuori, perché tutto quello che ti succedeva, anche il bello, finiva lì dentro, risucchiato da una forza sconosciuta, e scompariva. Tra le cose belle e le cose brutte non c’era differenza, venivano ingoiate e allargavano la voragine.
E come per Pagano il pugilato, così per Jim e poi Tedesco i libri, tutto va a finire nella voragine delle loro vite da vicolari e ogni volta che si prospetta una possibilità di imboccare una direzione diversa, il richiamo della cattiva strada si fa sempre più ineluttabile. Interessante a questo proposito è l’architettura del romanzo, che si rifà a quella della città di Genova, i cui caruggi attirano sempre come ragnatele: «i vicoli puoi cercare di dimenticarli, ma sono loro che ti vengono a cercare». Tuttavia, al di là di essi c’è il mare: mare che ti entra negli occhi, che ruba il dolore, che ricomincia sempre, come diceva Jim. E il ritmo della scrittura è quello stesso del mare che mai si posa e sempre si rigenera, come i personaggi del romanzo – anche se non in eterno.
C’è bellezza anche nelle anime dei dannati, suggerisce la lettura di questo romanzo. Come si può giudicare cattivo chi percorre la strada sbagliata senza capacità di chiedersi se sia quella giusta? Certo, l’incanto del mare questi ragazzi non lo perdono di vista, ma a volte, come dice Lord Jim, basterebbe provare a cambiare prospettiva per trovare altre felicità possibili. «Mi ha detto: le abbiamo sempre cercate nel posto sbagliato le sirene, Tedesco. Le pensavamo sotto il mare, invece era sopra, nel cielo, che si doveva cercarle».
Beatrice Palmieri