Il mio è un invito deciso. Un messaggio da quello spazio al margine, che è il luogo di creatività e potere, spazio inclusivo, in cui ritroviamo noi stessi […]. Marginalità come luogo di resistenza. Entrate in quello spazio. Incontriamoci lì. Entrate in quello spazio. Vi accoglieremo come liberatori.1
Non tutti gli spazi sono uguali. Il luogo da cui osserviamo il mondo influenza la visione che abbiamo di esso: vedo il mondo così, perché lo vedo da qui. È una conseguenza talmente importante da essere quasi ovvia, tanto che spesso non viene analizzata in profondità. Ma quando prendiamo consapevolezza della posizione che occupiamo, del valore dello spazio da cui osserviamo le cose e della nostra relazione con esso, le possibilità diventano molte e affascinanti.
L’intertestualità può essere d’aiuto per interpretare scritti che da fuori appaiono inevitabilmente diversi. Almeno in questo caso, infatti, è possibile osservare l’opera di una pensatrice decoloniale attraverso il caleidoscopio di una trilogia fantascientifica, ovvero Trilogia dell’Area X di Vandermeer, generando una possibile, nuova lettura di entrambe le opere.
Jeff Vandermeer e bell hooks, di primo acchito, paiono autori con ben poco in comune. Un primo punto d’incontro fra loro, tuttavia, è proprio l’importanza che attribuiscono alla nozione di luogo, e alle zone grigie che esso porta con sé: le loro opere maggiori ruotano attorno ai concetti di confine e margine. Nel linguaggio comune li utilizziamo come sinonimi, ma in questo caso presentano una differenza importante.
Nell’accezione che gli dà bell hooks, il margine si qualifica come la zona più lontana dal centro, quella che gli si oppone. È la zona ignorata, è l’opposto di tutto ciò che è importante, di tutto ciò che è predominante. E proprio per questo è la zona in cui le possibilità sono infinite. Il confine di Vandermeer, invece, è una sorta di luogo-non-luogo, mutevole come l’Area X che delimita: talvolta si tratta di uno spauracchio invalicabile, talvolta della riva di un fiume purificatore oltre la quale si è ripuliti. Proprio perché nella lingua di tutti i giorni sono sinonimi, però, il confine è anche margine, e viceversa; ed è sul sovrapporsi e sul distinguersi dei due concetti che questa analisi poggia.
È bene ricordare, anzitutto, che il filone a cui la Trilogia appartiene è esso stesso zona liminale: la fantascienza è stata a lungo considerata una sorta di para-letteratura – non così infima da esser relegata tra i testi spazzatura, ma nemmeno un genere letterario con una sua dignità come potevano averla la poesia, o la narrativa romanzesca del Novecento.
Questa marginalità ha permesso a molti scrittori di fantascienza di creare universi letterari inimmaginabili, spingendosi al confine tra narrativa e filosofia e nascondendo sottotesti quasi esistenziali nella loro produzione artistica. Non solo: quando questa marginalità non si limita al genere letterario, ma viene vissuta a livello sociale dalle autrici, la scrittura diventa un formidabile avamposto per l’esercizio dell’opposizione, dell’immaginazione e del femminismo. Basta pensare a figure come Octavia E. Butler, Ursula Le Guin, James Tiptree Jr., Angela Carter. Jeff Vandermeer conosce probabilmente molto bene questa marginalità, dato che è stato curatore, insieme alla moglie Ann, l’antologia Le visionarie. Fantascienza, Fantasy e Femminismo (pubblicata in Italia da Nero), che raccoglie le autrici sopra citate e a tante altre.
Non dovrebbe sorprendere, dunque, che l’opera più importante di cui Vandermeer è autore faccia perno sul concetto di confine e paura dell’Altro. L’Area X è un tratto di costa nordamericana in cui sta accadendo qualcosa di poco chiaro: un fenomeno di origine sconosciuta sta alterando gli organismi, lo scorrere del tempo e della vita naturale, e soprattutto il rapporto che chiunque entri nell’Area X costruisce con l’ambiente circostante.
Diviene sempre più evidente, col procedere della narrazione, che questa contaminazione assomiglia a una sorta di ritorno alle origini: il luogo, nella sua materialità, diventa senziente, pulsante, un unico grande organismo con una consapevolezza propria, che abbraccia spazio e tempo. La natura inoltre sembra rigenerarsi, annullare gli effetti secolari della presenza umana. Una volta che si entra in contatto con questo ambiente, come accade alla spedizione di scienziate che nel primo capitolo della trilogia si avventura nel territorio contaminato per esplorarlo, non è possibile tornare indietro: si è cambiati per sempre, come marchiati. Una volta attraversato il confine, non si è più gli stessi.
La distanza tra margine e confine si fa labile e sfocata. Anche l’Area X è un luogo-non-luogo, e si confonde col suo stesso confine, continuamente evocato e temuto: forse sta avanzando, forse è già avanzato, e l’incertezza sulla sua posizione – su dove l’Area X inizi e finisca – lo rafforza, e allo stesso tempo lo rende inesistente. Il confine diventa una presenza fantasmatica e soffocante insieme, il punto più importante ma comunque non collocabile.
Ai colletti bianchi della Southern Reach, l’agenzia governativa incaricata di sorvegliare i mutamenti dell’area contaminata, fa paura proprio la liminalità sfocata dell’Area X. Della presenza misteriosa che l’ha contaminata, gli umani riescono a cogliere la grandezza, a tratti salvifica, a tratti terrificante; ciò su cui sono tutti d’accordo è la sua tremenda diversità, il suo essere irrimediabilmente Altra. Questa alterità è spaventosa perché non è concepibile; perché si fatica a prendere coscienza di una diversità che non presenta scopi o ragionamenti in cui riusciamo a riconoscerci. Nei romanzi, in effetti, quella dell’Area X viene descritta come «una natura così estranea a noi, ai nostri scopi e ai nostri ragionamenti, da averci lasciato indietro, da aver lasciato tutto indietro da molto tempo».2
bell hooks, dal canto suo, ha costruito la propria opera di critica sociale proprio intorno ai concetti di margine e di alterità. Nel volume che raccoglie l’Elogio del margine (e già questo titolo è indicativo) e Scrivere al buio, dice di sé e degli altri membri della comunità nera in cui viveva da ragazzina: «In fondo, la nostra presenza è un atto di rottura. Noi siamo talmente “Altro” da essere una minaccia».3
E poco dopo descrive lo spazio di confine come «il margine, il bordo, là dove la profondità è assoluta. Trovare casa in questo spazio è difficile, ma necessario. Non è un luogo “sicuro”. Si è costantemente in pericolo».4
Siamo abituati a considerarci lontani dalla vitalità più pura ogni volta che ci troviamo lontani dal centro, e relegati nel margine. bell hooks, invece, questo spazio sceglie di elogiarlo: rivendica la sua appartenenza al margine della società, alla parte più liminale, sfocata, ignorata e disprezzata della società e della spazialità. Negli scritti sul razzismo e sul femminismo intersezionale di bell hooks la marginalità è un concetto da onorare, perché «vivendo in questo modo – all’estremità – abbiamo sviluppato uno sguardo particolare sul mondo. Guardando dall’esterno verso l’interno e viceversa, abbiamo concentrato la nostra attenzione tanto sul centro quanto sul margine. Li capivamo entrambi. questo modo di osservare ci impediva di dimenticare che l’universo è una cosa sola, un corpo unico fatto di margine e centro».5
Questa doppia visione è possibile solo quando ci si trova ad essere considerati innegabilmente Altri, innegabilmente estranei e dunque spaventosi. Un luogo dagli scopi e dalle origini sconosciute come l’Area X risulta spaventoso perché non ci considera; un mondo privo di discriminazioni (che è l’utopia a cui, in un modo o nell’altro, aspira chiunque parli di intersezionalità) risulta sconcertante perché rovescia tutto ciò che si conosce. Che si tratti di una contaminazione aliena, o di una società che debba confrontarsi con l’intersezionalità.
Nel 2021, in occasione di un festival sulla fantascienza e il new weird organizzato dal Teatro India di Roma, ho assistito a una conferenza dal titolo “La selva alla fine del mondo”, che muoveva proprio dall’organismo vivente che costituisce l’Area X. Un professore di filosofia morale, durante quella conferenza, disse che gli spazi descritti nell’opera ci provocano inquietudine perché sono dotati di una loro autonomia, e per l’uomo è inconcepibile che qualcosa possa esistere anche senza qualcuno che stia lì a guardarlo. Disse che ogni tentativo di descrivere l’Area X era destinato a fallire, ma che si trattava di un fallimento necessario, perché siamo intimamente incapaci di descrivere un mondo che non ci accolga né ci respinga ma che, semplicemente, non ci consideri importanti.
Forse questo fallimento delle nostre facoltà descrittive è lo stesso in cui cadiamo quando proviamo a immaginarci un mondo che non consideri importanti le sue categorie sessuali, etniche, linguistiche, o di genere attualmente privilegiate: e infatti per queste categorie è sempre spaventoso pensare che il loro sguardo possa non essere di vitale importanza, o comunque non l’unico possibile.
La fine di un mondo, si sa, non è mai solo fine, ma è sempre anche nascita. Controllo, il protagonista del secondo capitolo della trilogia, si chiede spesso se il processo in atto nell’Area X precluda alla distruzione del mondo, o alla sua salvezza. Forse, riflette poi Controllo, non si può tornare indietro: ma si può cambiare qualcosa. Si può osservare ciò che è Altro da noi senza lasciarsi paralizzare dal timore, ma lasciandosene decostruire e poi riassemblare.
Nell’Elogio del margine si scrive che «Casa è quello spazio […] in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza. Sperimentare e accettare dispersione e frammentazione come fasi della costruzione di un nuovo ordine mondiale che riveli appieno dove siamo e chi possiamo diventare, e che non costringa a dimenticare».6
Questa frammentazione dispersiva come anticamera di una ricostruzione radicale è uno dei processi principali che subisce chiunque passi per l’Area X: e il mettere in dubbio tutto è un passaggio obbligato del venire in contatto con la diversità. Frammentarsi per poi ritrovarsi produce caos, e poi armonia. Agli occhi della biologa (una delle partecipanti alla spedizione del primo libro nell’Area X), «non c’era niente di mostruoso, solo bellezza, solo lo splendore di un progetto armonioso, di una programmazione complessa […] Un animale, un organismo che non era mai esistito prima o che forse apparteneva a un ecosistema alieno. Che poteva passare non solo dalla terra all’acqua ma da un luogo remoto all’altro, senza bisogno di un varco al confine».7
Non è mia intenzione snaturare le parole di una straordinaria pensatrice decoloniale come bell hooks ingabbiandola in un ambito, come quello fantascientifico, che non è il suo. Credo però che la fantascienza, proprio per questa sua marginalità costitutiva, offra infinite possibilità. Un’opera come quella di Jeff Vandermeer può essere utile, a noi che ci troviamo in una posizione di privilegio, per dare un’impronta decoloniale al nostro pensiero attraverso una comprensione più profonda di pensatrici come hooks: e, non meno importante, ci ricorda di quanto possa essere profondo il cambiamento che la letteratura può dare alle nostre vite.
Emma Cori
1 Elogio del margine, p. 133.
2 Trilogia dell’Area X, p. 644.
3 Elogio del margine, p. 126.
4 Elogio del margine, p. 127.
5 Ibidem.
6 Elogio del margine, p. 125.
7 Trilogia dell’Area X, p. 634.
I testi di riferimento per questo articolo sono:
Jeff Vandermeer, Trilogia dell’Area X, Einaudi 2018;
bell hooks, Elogio del margine / Scrivere al buio, Tamu 2020;
Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio, Meltemi 2020, per una più accurata comprensione del concetto di marginalità e del pensiero di bell hooks.
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