MOR. Storia per le mie madri, Sara Garagnani
(add editore, 2022)
Sembrerà buffo, ma, riflettendoci, il momento in cui veniamo al mondo non corrisponde esattamente con l’inizio della nostra storia. Non se ci si rende conto che, nascendo, diventiamo automaticamente eredi di una storia che altri, le generazioni prima di noi, hanno già intrapreso e di cui noi, senza volerlo, siamo inevitabilmente debitori. Talvolta, e nemmeno troppo raramente, alla beffa si aggiunge il danno: ci ritroviamo con le radici immerse in una storia di traumi, silenzi, vergogne e segreti che plasmano la nostra identità, la nostra capacità di amare e di dare forma al mondo. Dunque, prima o poi, nell’ineluttabile incontro col futuro, arriverà il momento, volenti o nolenti, di farci i conti.
È all’interno di questa dinamica esistenziale universale che si inserisce il graphic novel autobiografico di Sara Garagnani, illustratrice e art director, al suo esordio con add editore. Il titolo è MOR. Storia per le mie madri ed è una chiara dichiarazione di intenti se si considera che ‘mor’, in svedese, significa ‘madre’. Mor è un canto d’amore il cui ritmo è lento e scandito da tante solitudini, i cui accordi sono costruiti su silenzi e presenze troppo ingombranti: è il tentativo di confrontarsi col proprio passato per tentare di salvare il futuro.
Questa è una storia famigliare e come accade in tutte le famiglie non ci sono protagonisti, ma punti di vista. Non ci sono eroi né mostri, c’è solo quello che possiamo e riusciamo a essere.
Così l’autrice nella nota che precede la storia, che assieme al titolo rivela la grande umiltà e il sincero rispetto con cui tenta di ricucire le ferite e rimettere insieme i pezzi che compongono la storia di quattro generazioni di donne – le sue madri, legate a lei non solo dal patrimonio genetico, ma soprattutto dall’eredità di un male ancestrale: figlie e poi madri, vittime e poi carnefici. Sara Garagnani risale la sua linea materna dalla Svezia all’Italia cercando di dare voce a quel tremendo segreto che, tramandandosi dalla bisnonna Olga (in svedese ‘mormorsmor’) alla nonna Inger (‘mormor’) fino alla madre Annette (‘mor’), ha stravolto anche la sua vita.
È un gelido e innevato paesaggio svedese ad aprire la prima parte della narrazione, di un bianco che presto verrà macchiato dal sangue di una ferita che inizia a (ri)aprirsi. Questa parte è intitolata ‘Nettan’, soprannome di Annette, madre di Sara, di cui l’autrice ripercorre, dandole voce in prima persona, l’infanzia assieme al fratello gemello Christer. La presenza più ingombrante di questa prima parte è Inger, madre dei gemelli: donna tanto bella quanto inquieta, il cui rapporto conflittuale con la madre e la sorella alimenta in lei una rabbia incompresa, un magone silenzioso che sfocia in una violenza incontrollata nei confronti dei figli.
Lungi dall’ergersi a voce giudicante, ma piuttosto col pudore di chi tenta di ricostruire una memoria che riesca a dare un senso al trauma, linfa del proprio albero genealogico, Garagnani crea un potente impasto di immagini e parole capace di esprimere la mancanza più indicibile: quella dell’amore materno. In una bellissima serie di tavole composte da provette, campioni di magone e tavole illustrative dell’evoluzione dell’ira furens, l’autrice, per comunicare l’incomunicabilità di questo dolore, prende in prestito il linguaggio della scienza, cercando di analizzare «la sostanza di cui era composta la rabbia della mamma». In seguito, si serve di rebus e rompicapi enigmistici, passando infine a una tavola matematica, dove i conti non tornano e «l’unica cosa che conterà è l’amore che non c’è stato».
Psicologia, scienze, arti visive e linguaggio poetico si danno man forte per cercare di trovare la forma adatta a raccontare una nevrosi ancestrale, da generazioni tenuta segreta in una sorta di cospirazione del silenzio, un non-lessico famigliare appartenuto da sempre alla linea materna della genealogia dell’autrice. Tavole dal tratto gentile e visionario danno corpo ai fantasmi e alle architetture dell’incubo – talvolta ricordando la maniera piranesiana – che abitano la coscienza di figlie vittime di violenza, fisica e psicologica, da parte delle madri. Le palette utilizzate seguono l’andamento della temperatura emotiva percepita, che va dai colori più algidi dei momenti in cui il dolore e l’impotenza si fanno totalizzanti, a quelli più ematici degli istanti di follia.
Era la temperatura dell’assenza materna, che diventava la misura della nostra fiducia nel mondo. E il grado di desiderabilità della vita.
È notevole il cambiamento operato dall’autrice nella seconda parte del libro, intitolata ‘Dotter’, ossia ‘figlia’ in svedese, in cui Sara in persona prende la parola per raccontare la sua storia: la storia di una bambina che assiste impotente all’autodistruzione della madre. Alle vignette vengono preferiti disegni che spesso occupano con urgenza la pagina intera; ai caratteri a stampa è preferita una scrittura calligrafica, che si insedia libera all’interno della narrazione per immagini, perché probabilmente è così, «forse il discorso accade tra le pieghe delle cose». Ed è quando Annette entra in coma in seguito a un incidente che in Sara si accende l’urgenza di tornare nel posto dei segreti: «mi sono capacitata di quanto il suo malessere abbia ingombrato il nostro tempo e il mio tempo»; e ancora: «ho preso gli album di famiglia […] e ho sentito scendere un pianto da nord». Sara intuisce che per interrompere il doloroso retaggio famigliare è necessario dargli voce: il racconto del trauma come unica arma per liberarsene; la mancanza di amore combattuta con l’amore stesso.
Con spietata dolcezza e profondità, Garagnani costruisce un racconto per immagini di una potenza totalizzante, capace di sollevare, attraverso una storia intima e personale, una più ampia riflessione sul ruolo della madre e dei rapporti di potere nella società. Cosa significa essere figlia? E cosa significa essere madre? Sono domande, come molte di quelle che scaturiscono dalla lettura del libro, semplici ma per niente banali: spesso si suppone che la Madre, in quanto tale, sappia essere madre. E che se utilizza la violenza – sia essa fisica o psicologica – è legittimata dalla sua posizione di potere rispetto ai figli. Ma questo si rivela un «falso privilegio dato da una società patriarcale», per mantenere lo stato delle cose in una società in cui le cose si basano sul ricorso alla violenza; si pensi, infatti, alle figure maschili, grandi assenti nella storia di Sara, testimoni silenti della perpetrazione di una violenza di cui si sono resi complici.
Emerge dunque, in questo canto di riconciliazione e catarsi, una nota sulla possibilità di decidere l’inizio della storia personale: Sara non è più vittima della sua genealogia nel momento in cui la mette in discussione, la affronta, la vede, la ascolta, la racconta e le dà dignità. Perché «quello che subiamo, e che non elaboriamo, lo infliggeremo, o al limite lo asseconderemo». Ed essendo la famiglia il primo nucleo sociale in cui un individuo fa esperienza della società, forse è da qui che bisogna partire per estirpare la violenza in tutte le sue forme, anche cercando di leggere tra le righe. «Tutto parla nel silenzio»: e allora restiamo in ascolto.
Beatrice Palmieri