“Rosa Spinacorta”: il corpo nemico della Regina

Rosa Spinacorta, Mario Ferraguti
(Exorma, 2022)

rosa spinacortaUna delle contraddizioni forse più vistose del cattolicesimo ortodosso è il suo prescrivere un certo disprezzo per tutto ciò che riguarda il corpo e la carne, e insieme la sua ossessione per l’immagine di quest’ultimo: il sangue che purifica e pulisce, le piaghe dei santi, i loro martiri fisicamente dolorosi. Il corpo è nemico, ma in alcuni casi è come se fosse lo strumento più facile da utilizzare per avvicinarsi al divino, e la prima tela a portare i segni della benevolenza di Dio.

È su questa contraddizione che Mario Ferraguti costruisce Rosa Spinacorta, romanzo tratto dalla vera storia della vita di Tecla, allevata in convento, e fra le ultime donne ad essere istruita in gran segreto alla vestizione della statua della Madonna.

Si trattava di un compito importante e misterioso, al quale era necessario venire appositamente educate: non solo per il complesso insieme di pratiche della vestizione stessa, ma anche perché era inconcepibile che chiunque, al di fuori della prescelta, potesse vedere la Madonna nuda, anche se si trattava semplicemente di una statua lignea (peraltro molto lontana dall’esattezza anatomica): un onere che comportava isolamento, segretezza e, ovviamente, timore di Dio.

Quando viene scelta per questo compito, Tecla è ancora una bambina. A guidarla nei gesti e nelle pratiche, in equilibro sul confine sfumatissimo che separa la magia dalla religione popolare, è quella che Tecla chiama «donnadischiena»: anziana, poco loquace, consumata da un’esistenza dedicata alla vestizione della statua.

Vivere per la Regina, ossia per la Madonna, significa rinunciare a un corpo fatto di carne e sangue per dedicare ogni pensiero a quello di legno duro dell’effige; Tecla cresce sotto il peso di rituali segreti che non può rivelare a nessuno, e nel costante timore di non sapersi annullare abbastanza. Tecla osserva la donnadischiena e spera di imparare da lei:

Probabilmente era per l’allenamento a diventare trasparente, che in tutti quegli anni le era riuscito molto bene fino quasi a scomparire per davvero, oppure era solo vecchia e anche invecchiare è un modo per trasformarsi, a poco a poco, in niente. Era la preparazione a non esserci per una che non c’era mai stata.

Ma per quanto si possa fingere di essere fatti della stessa materia di cui son fatte le statue, il corpo non lascia tregua. Mano a mano che Tecla cresce, il suo aspetto cambia: e alla colpa di non sapersi annullare si aggiunge anche quella di essere donna (perché «la carne di donna vale meno […] è una creatura ricavata dalla costola la femmina, è impura, a ogni cambio di luna sanguina, è molto più simile a una bestia»).

La Regina, per quanto fatta di legno, è una presenza mobilissima: nella mente e nella vita di Tecla passa da sovrana spaventosa, a protettrice, a figura da proteggere, a strana confidente di segreti che Tecla non potrebbe rivelare a nessuno. In un modo o nell’altro, finisce per essere davvero una presenza costante, seppure sempre in virtù delle caratteristiche che Tecla ha bisogno che lei abbia.

Al di sotto della stanza in cui stanno chiuse Tecla e la sua Regina, poi, si muove un turbine di personaggi appena abbozzati, e tuttavia estremamente memorabili: Filippo il matto, Bice, lo stuolo di suore, corpi e volti senza nome che sfrecciano nel quadro della ripresa come guizzi scorti con la coda dell’occhio, ma che si rivelano difficili da dimenticare.

La bassa padana e i campi in cui ristagna la nebbia, il Po, le rive fangose e la boscaglia sono gonfi della mitologia popolare, sempre al limite tra il blasfemo e il pio; e allora non può stupire che ci sia un presepe vivente che va alla deriva su una zattera per giorni e giorni, o che nei boschi camminino gli spiriti dei morti, o che nelle paludi nebbiose si nascondano pittori toccati da divina pazzia.

La narrazione è fluida quanto il corso del fiume che così spesso l’autore descrive, quasi come se Ferraguti avesse provato a sua volta a farsi un po’ trasparente, a mettersi da parte per lasciare passare solo il racconto; ed è con sorprendente accuratezza che descrive la complessità del rapporto che con il corpo può avere una donna da sempre istruita a odiarlo.

Ma Rosa Spinacorta è prima di tutto un romanzo sul sacro: su quanto questo può essere lontano da situazioni e oggetti che dovrebbero esserne l’essenza, e su come invece prorompe potente proprio laddove non ci aspetteremmo di trovarlo, come nello scintillio degli occhi di un topo, o nella brutalità di quel che ci rende più umani.

E a forza di stare insieme, nella stessa stanza, uno si accorge che non è niente, che quello che dovrebbe essere sacro e fatto di Dio, lo possono mangiare gli insetti e farci il nido i topi. Allora ti viene il dubbio che sia tutto lì il miracolo, in fondo è niente; e niente la Regina.
Ciò che gli uomini venerano, quello in cui credono è un pezzo di legno vestito con un po’ di rosso sulle guance da sembrare vero e una luce appena più forte nel buio del cielo, tutta qua la nostra speranza.

A rendere così intensa la lettura è, in sostanza, il fatto che in Rosa Spinacorta ci venga concesso di sfiorare una dimensione popolare molto specifica e precisa, in cui ogni cosa, persona o animale può essere tramite di Dio o del demonio. È un mondo in cui per ogni fattura esiste un controincantesimo che tutti conoscono perché ce lo si tramanda così da generazioni, e in cui una statua di legno che raffigura la Vergine diventa forse più importante della Vergine stessa. Ed è tutto crudele, vivo e ricco di meraviglie.

Emma Cori

In copertina foto di DDP on Unsplash

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