Il sangue delle bestie, Thomas Gunzig
(Marcos y Marcos, 2022 – Trad. Francesco Bruno)

Dopo averci esilarato con Feel good, irriverente satira sulla società e l’editoria contemporanee (di cui avevamo scritto qui), Thomas Gunzig torna in libreria con un nuovo romanzo nella briosa traduzione di Francesco Bruno: Il sangue delle bestie. Assurdo, denso e originale, questo libro conferma lo sguardo lucido e ironico dell’autore sulla realtà che ci circonda, ma soprattutto la sua abilità di rappresentarla in modo dissacrante e sincero.
Tom — nome familiare ai lettori di Feel good — è un uomo di mezza età alle prese con un un bilancio esistenziale che grava sulle sue spalle con un peso che nemmeno la sua enorme massa muscolare riesce a sostenere: “che cosa ho fatto della mia vita?”, si chiede nel giorno del suo cinquantesimo compleanno. Una vita, la sua, votata alla cura del corpo, scandita dal motto “no pain no gain”, sfociata come per inerzia in un lavoro in un negozio di integratori. Il matrimonio con Mathilde, donna affascinante dalla lunga figura sottile di cui adorava la durezza dei trapezi, gli ha dato un figlio, Jeremie, che, al contrario del padre, ha passato un’adolescenza abulica tra i videogiochi e il rigetto per qualsiasi attività fisica. Quando non scorre il feed di Instagram e Facebook nelle ore morte in negozio, Tom passa il tempo in palestra a sollevare pesi, a forzare gambe, braccia, spalle e costringersi sempre ad un’ultima serie, fino a farsi invadere dal torpore e dal disinteresse per tutto ciò che lo ha mosso fino a quel momento — una forma di stanchezza perenne che gli fa pensare a un anticipo di morte.
«Ripetere le sequenze, raggiungere il limite del dolore, sentire i muscoli congestionarsi, caricare e scaricare i bilancieri era un’attività che gli sgravava la mente. Dimenticava la sua età che lo avvicinava alla vecchiaia, dimenticava sua moglie che lui non desiderava più, suo figlio che lui non capiva, dimenticava le bollette da pagare, dimenticava il lavoro che l’annoiava, dimenticava tutto il pantano colloso della sua realtà, non pensava più né al passato né al futuro, era ridotto a un puro metabolismo che produceva energia per tirare, spingere, sollevare» (p. 48)
A sconquassare l’infelice eppur tranquilla esistenza di Tom, l’autore mette in scena una serie di rocambolesche coincidenze che inizialmente sfiorano l’assurdo, per poi cozzarci in maniera definitiva e travolgente: la moglie gli regala un test del DNA, il figlio torna a casa dopo una rottura con la fidanzata e il padre gli annuncia di avere un male incurabile, a seguito della cui scoperta decide di andare a vivere a casa sua, dice, per tentare di ricucire un rapporto da tempo logorato. Come se ciò non bastasse, entro mura già sovraffollate di persone e malcelati rancori, ecco far capolino N7A (Nsettà), una presunta profuga che Tom salva dalle grinfie di un uomo violento e decide di ospitare a casa. Ma che fare quando N7A confida alla sua famiglia di essere una mucca geneticamente modificata? In poco tempo, quella che Tom pensava fosse stata un’azione eroica, crea una profonda crepa in rapporti familiari già fragili, e lascia spazio alla rabbia.
«Quella collera rispecchiava un senso d’impotenza di fronte al corso della sua vita, quella collera nasceva come un fiore di tenebra su amarezze così lontane nel tempo che avevano perso il loro oggetto ma non la loro forza, quella collera si schiudeva su una quantità di rimproveri che erano sedimentati nella sua mente per anni, quella collera prendeva forza dal fatto chiaro e terrificante che lui non amava l’uomo che era diventato e dall’idea, più terrificante ancora, che non era sicuro di poter diventare un altro» (p. 74)
In una trama densa di elementi eterogenei, che bilancia ingegnosamente la costruzione di relazioni familiari e il loro inserimento in un contesto sociale contemporaneo — caldo di dibattiti generazionali, sull’animalismo e il femminismo —, l’incontro con N7A diventa l’assurdo e originale espediente che veicola il tema dell’identità. Risvegliato dal torpore da questa donna che gli parla della sua identità di mucca scampata al mattatoio, e maltrattata dal padrone, Tom si rende conto di aver costruito la sua identità su storie che non gli appartengono, finendo col detestare la narrazione di sé stesso cui ha aderito per metà (letteralmente) della sua vita. Figlio di padre ebreo, sopravvissuto alla guerra e cresciuto orfano nella Polonia antisemita, orfano lui stesso di madre — morta per la congenita vigliaccheria del padre — Tom si porta dentro un trauma intergenerazionale e personale che lo identifica necessariamente con la vittima. Grazie ad N7A, Tom scopre che non è troppo tardi per prendere in mano la sua vita e riscriverne il copione — tanto più dopo lo sconcertante risultato del suo test del DNA, che manda all’aria tutto il suo passato.
Il tema dell’identità, in questo breve romanzo dai capitoli che hanno i nomi dei muscoli, si intreccia strettamente con quello del corpo: Tom è irrimediabilmente ebreo nell’animo, nel sangue e nell’aspetto. Con tanta forza di volontà e altrettanto body-building, inseguendo il mantra della perfezione del corpo per scacciare la maledizione del suo, ha operato contro il determinismo genetico e si è costruito un corpo “niente male”. Il tutto combattendo contro una nevrosi ebraica che fa eco al lamento di Alexander Portnoy: il suo piccolo e sgangherato corpo dalle forme «contorte, deformi, degenerate che popolavano la propaganda nazista» arde di desiderio sessuale nei confronti di ragazze dalla «biondezza germanica» e dai corpi «scolpiti dalla pratica di sport aristocratici». Desiderio che nasconde una volontà di rivincita sulla Storia inscritta nei suoi geni di ebreo ashkenazita.
Con la sua riconoscibile cifra stilistica, irriverente e coinvolgente, Gunzig esplora il tema dell’identità tramite N7A anche in termini intersezionali, indagando soprattutto la categoria della specie: questa donna dal genoma di una mucca è la voce che consacra un punto di vista tanto singolare quanto legittimo, facendosi portavoce della «sensazione terrificante di essere un animale nel mondo degli umani». Anche nel suo DNA è inscritta la memoria della brutalità dei mattatoi e della paura della morte sempre imminente — in senso traslato, ricorda l’esperienza dei campi di concentramento — e con la sua storia il lettore è costretto a scandagliare la costruzione di un’identità altra nel senso più assurdo, quella di un’animale, scoprendola però composta degli stessi elementi primi di quella dell’uomo stesso.
Quanto di quello che siamo è frutto della nostra memoria collettiva? E quanto margine abbiamo per poterne diventare protagonisti? Se poi, ad un tratto, ci accorgiamo che la storia a cui abbiamo creduto è una menzogna, cosa rimane di noi? Se in Feel good Gunzig ha architettato una feroce commedia del consorzio umano contemporaneo, ne Il sangue delle bestie l’autore belga avvicina la lente di ingrandimento all’esperienza del singolo — uno dei tanti attori del tessuto sociale, che condensa in sé i problemi più comuni. C’è la famiglia, il lavoro, ci sono le relazioni umane più complesse. Le premesse, dunque, sembrano ordinarie, ma l’ingrandimento del dettaglio porta a una grottesca deformazione del soggetto. Ed è così che l’espediente dell’assurdo, maneggiato con grande intelligenza, convince e dà quell’illusione di distanza necessaria a leggere gli eventi con leggerezza e a rifletterci, poi, con più ponderata partecipazione. Magari non ci capiterà di incontrare una mucca geneticamente modificata dall’aspetto di donna, ma è verosimile che ognuno, a un certo punto della propria vita, possa trovarsi a battere le corna contro qualcosa di così bizzarro che, alla fine, è costretto a fare i conti con la propria esistenza: quanto del sangue che scorre nelle nostre vene fa di noi bestie ciò che siamo?
Beatrice Palmieri
L’ha ripubblicato su Downtobaker.
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