Il destino oltre il mare: la migrazione al contrario

Il destino oltre il mare, Luigi Biondo
(Caffèorchidea, 2023)

Luigi Biondo, architetto soprintendente dei beni culturali e ambientali di Agrigento, nonché responsabile di restauri di patrimoni storico artistici, esordisce nella narrativa con Il destino oltre il mare. Si tratta di un racconto familiare breve, anzi, brevissimo, dato che soltanto la prima metà del libro racconta la storia della sua famiglia. Il resto del volume si configura come la ricerca delle radici dell’autore stesso, partito da Trapani alla volta della Tunisia per un reportage riguardante i secolari rapporti commerciali tra la marineria siciliana e quella maghrebina.

Espediente per l’inizio della narrazione è il ritrovamento di un affresco presso la Cappella dei Pescatori di Trapani, avvenuto durante il restauro del santuario. Biondo riesce a collegare la ricchezza data dal commercio del corallo, il cosiddetto “oro rosso”, alla raffigurazione parietale, supponendo che il focus di quel dipinto tanto antico fossero proprio i pescatori siciliani che, nella prima metà del Cinquecento, scoprirono un banco di corallo vicino alla città tunisina di Tabarka. La congettura ha origine da parecchie «pagine ingiallite» e «impolverati documenti», nonché dall’aiuto di numerosi professionisti del settore, di cui si riporta sempre doviziosamente nome, cognome e titolo.

Oltre a essere un espediente narrativo, questo evento diventa anche la spinta necessaria all’autore per indagare le radici della sua famiglia materna, i Salerno. Il racconto familiare segue il percorso di tre generazioni, oltre a quella contemporanea rappresentata da Biondo in persona. La storia inizia dopo aver citato il citabile per quanto riguarda le grandi narrazioni che concernono il mare, la storia popolare e una versione italiana del self made man, vale a dire Oceano mare di Baricco, la Bibbia, i proverbi cinesi, Omero e Jules Verne.

La storia dei Salerno accomuna anche altri trapanesi. Fuggiti in Tunisia nel clima della crisi economica di Wall Street che aveva investito anche l’Europa, ricevettero probabilmente un habous, una porzione di terreno coltivabile, a Massicault. La scelta di trasferirsi si rivela essere quella giusta, negli anni in cui gli italiani in Tunisia sono quattro volte i francesi. Poco dopo, però, Andrea, il padre, muore improvvisamente, lasciando la fattoria alla moglie Angela e al maggiore dei loro figli, Nino. Da qualche tempo il giovane intrattiene una relazione epistolare con la sua cugina di primo grado, Gina, che già lo amava quando lui era partito per Detroit, a cercare fortuna quando ancora non si parlava di emigrare in Tunisia.

Si sposano nel 1929 in Sicilia, poi tornano subito in Tunisia, dove Gina deve fare i conti con un brutto rapporto con la suocera e le cognate, che vivono con loro. Le tensioni scemano un po’ con l’arrivo della loro bambina, Angela, la madre di Luigi Biondo, ma la suocera muore soltanto un anno dopo. Nonostante il peso della responsabilità familiare ora gravi interamente sulle spalle di Nino, insieme a Gina e alla loro figlia si trasferisce in una casa indipendente a Mornaghìa, dove organizza il matrimonio della maggiore delle sue sorelle con un loro conterraneo. La serenità dura poco, perché anche Nino scompare prematuramente, a soli otto giorni dalla festa di nozze. Gina, piegata dal dolore, decide di tornare in Sicilia.

Si trasferiscono a Valderice, dove Gina gestisce, con la madre e la figlia, l’affitto di alcune stanze della loro casa. Nel frattempo scoppia e termina la Seconda Guerra Mondiale, le cui bombe radono al suolo non pochi edifici del trapanese, Angela diventa insegnante e si sposa con Giovan Battista. In quegli anni tornano in Sicilia i parenti di Nino, mentre la Tunisia tenta di affrancarsi dalla Francia, e nascono Luigi Biondo e le sue due sorelle. Angela è perseguitata dall’ossessione di ritrovare la tomba del padre, visitata da lei durante il viaggio di nozze, ormai quarant’anni prima. Brandelli di notizie le riportano che forse il cimitero cristiano che ospitava le sue spoglie è stato distrutto dai fondamentalisti islamici. Il dolore scaturito da quest’eventualità è stato ciò che ha spinto Luigi a partire per la Tunisia, in cerca del sepolcro.

Nonostante le alte aspettative, la ricerca e il ritrovamento della tomba e, soprattutto, della casa di campagna a Massicault, vengono purtroppo liquidate in fretta, inglobate e nascoste dalla descrizione spasmodica della miriade di azioni compiute da Luigi. Il suo viaggio in Tunisia non prende di certo poco spazio, dato che viene raccontato in quasi novanta pagine, più della metà del libro. Il problema è che, come durante tutto il romanzo, viene rivolta moltissima attenzione alla descrizione di elementi superflui, come un piatto di plastica coperto da un foglio di alluminio, il sapore piccante e l’elenco dei vari ingredienti di un panino mangiato per sfidare un collega, il trillo di un cellulare. Sono interi paragrafi che appesantiscono la narrazione, rischiando di togliere spazio alla storia principale. Per esempio:

«Dopo circa mezz’ora di strada eravamo arrivati a una stazione di servizio per fare rifornimento di carburante e avevo prontamente estratto delle banconote dalla tasca per pagare il conto che Abel accettò non senza discutere. Mi allontanai per andare in bagno, per rinfrescare il viso accaldato e congestionato»(p.127).

Oppure:

«Avevo digitato velocemente il nome del sito sul computer collegandomi alla rete e le mia meraviglia si era trasformata in ricerca affannosa. Una quantità enorme di link apparve sullo schermo[…]»(p.87).

O, ancora:

«Piegavo le camicie e i vestiti con molta cura e li riponevo cercando di recuperare quanto più spazio possibile per lasciare un posticino dove sistemare qualche scatola di maqroud»(p.137).

Se nella seconda parte del libro le descrizioni minuziose creano un rumore di sottofondo da cui non si può che essere distratti, per quanto riguarda la prima parte il problema è un altro: la fretta. Intere generazioni vengono risolte a suon di matrimoni, nascite e morti, quasi come se ci si trovasse a leggere i registri anagrafici. La caratterizzazione psicologica dei personaggi è poco approfondita e, quando presente, aderisce all’ovvio, ricalcando una narrazione stereotipata dei temi ricorrenti, come quello del lutto. Di Gina, la nonna dell’autore, si dice che la lapide del marito «aveva sigillato i suoi sogni di donna e di madre» e che poi aveva «sacrificato sull’altare dell’amore il suo essere donna». Nonostante il romanzo dovrebbe raccontare la storia di una famiglia, inserendola nel contesto storico corrispondente, anche la Storia irrompe in modo non omogeneo. Talvolta Biondo impiega pagine intere al racconto di eventi storici, da quelli inerenti alla Seconda Guerra Mondiale, alle vicende legate a Cartagine, fino alla Primavera araba. Tuttavia essi non riescono ad amalgamarsi con la narrazione delle vite dei personaggi, e si introducono come excursus fini a sé stessi.

Anche il lessico adottato talvolta risulta ripetitivo o retorico: espressioni come «senza soluzione di continuità» si trovano a cadenza quasi regolare e il passaporto viene descritto come «il prezioso libretto con le copertine rosso scuro e le scritte dorate che profumavano di inchiostro, di carta e di felicità». Di tanto in tanto vengono fatte descrizioni banali e banalizzanti, come quella del lavoro dell’autore: «Ho sempre pensato che la lettura di pareti, superfici, membrature, stereotomie e segni possa condurci alla ricerca di documenti per raccontare le origini di luoghi spesso unici e carichi di storia», o quella con cui viene presentata Gina: «Aveva quella capacità delle donne siciliane di fare alcune cose in un modo unico, con una leggerezza legata ad una grande forza», o, ancora, la spiegazione dell’amore: «La voglia di restare al fianco di quell’uomo più che con altra persona».

Il contesto in cui viene sfoggiato un lessico alto e dotto è quello dell’architettura. In questo caso vengono usati diversi termini tecnici senza spiegarne il significato, e la descrizione di immobili o semplici strutture come la tomba di famiglia costituiscono lunghissime divagazioni. Forse sarebbe stato preferibile rivolgere tutta quest’attenzione ai personaggi, ridotti invece a ritratti bidimensionali, o alle loro vite. Infatti, nonostante nelle conclusioni siano ribadite più volte le intenzioni di seguire «il filo conduttore del destino legato al mare», l’esperienza di studio del progetto di ricerca «Un mare di corallo» e del «parallelo fra architetture realizzate e realtà sociali», ciò non avviene mai.

Il modo di rappresentare la Tunisia rischia in certi casi di apparire superficiale, se non stereotipato. Un termine ricorrente usato da Biondo per descrivere oggetti, mezzi, infrastrutture tunisini è «sgangherato», mentre le persone incontrate sono sempre «di ogni tipo» o «di ogni genere». Con l’eccezzione delle ultime pagine, in cui si nota uno sforzo di raccontare la cosiddetta Primavera araba, l’approccio al mondo nord africano sembra essere caratterizzato da un certo volontario distacco.

Questo approccio si rileva, oltre che nella lingua e nella scrittura, anche nel racconto e nelle riflessioni che vi ruotano intorno, con qualche disattenzione a quanto già riportato sul piano narrativo. Per citare un esempio: mentre Gina si prepara a lasciare la Tunisia per tornare in Sicilia (p.55), si menziona l’opposizione dei suoi cognati e della suocera, che però era stata precedentemente data per morta (p. 48), almeno tre anni prima della partenza di Gina.

In ultimo, il giudizio occidentale, permeante e pervasivo, si scontra con la necessità di questi anni di parlare di migrazione, senza idealizzare né esecrare coloro che, in tempi e luoghi diversi, hanno dovuto praticarla. Nel romanzo di Biondo si percepisce un’ambiguità di fondo per cui «il cammino [dei suoi avi] avrebbe dovuto accompagnarli nelle vicende umane dell’accoglienza e della fraternità tra i popoli», ma non viene mai fatto il minimo accenno al tema dell’immigrazione, al fatto che il percorso dei siciliani verso il continente africano oggi sia battuto all’incontrario, che il mare dove si pescavano i coralli oggi sia tristemente noto per essere il cimitero di innumerevoli esseri umani, alla fratellanza con i tunisini, richiamata solo dall’uso delle spezie nelle cucine della famiglia dell’autore. Nonostante le premesse, questa ricerca sembra essere a senso unico, cristallizzata e polarizzata sulla ricerca del passato. Sarebbe stato interessante integrare una riflessione sul fatto che oggi la sorte della migrazione si percorra in senso inverso, ma per lo stesso motivo di sempre: cercare una vita migliore.

Sono apprezzabili l’intenzione di indagare delle radici che sembravano perse, il tentativo di dare voce a delle generazioni che, pur non essendo cronologicamente così lontane, lo risultano per scelte di vita e condizioni. La necessità di sapere da dove veniamo, di conoscere la storia di coloro che ci hanno preceduti è un’intenzione legittima e un ottimo spunto narrativo, così come porre l’attenzione su una migrazione che non è né verso nord, né verso il continente americano, ma che fa indelebilmente parte della storia italiana.

Eleonora Mander

Immagine in evidenza: Luigi Crosti.

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