Tra forma e contenuto: “Un caso clinico” di Dino Buzzati

Nell’epoca della crossmedialità le trasposizioni sono all’ordine del giorno, e il nostro presente narrativo è saturo di adattamenti, rivisitazioni, riprese. Il grande gioco intertestuale non è certo stato inventato oggi: il nostro modo di raccontare storie rappresenta solo la crosta di una profonda serie di stratificazioni drammaturgiche, iniziata ere fa. Nella staffetta dei contenuti, quanti autori “di primo grado” non hanno potuto conoscere le opere tratte dalle loro, e quanti autori, pur avendo fatto in tempo a conoscerle, le hanno ripudiate! Le carte in tavola cambiano però nell’eventualità in cui, a trasporre un’opera in una forma diversa dall’originale, sia stato lo stesso autore dell’originale.

Si tratta di una circostanza interessante, che, nel caso di testi letterari, permette al lettore di entrare nel laboratorio mentale di uno scrittore. O perché quest’ultimo, non mantenendosi molto discosto dal suo primo testo, ne replica il processo di creazione in un genere diverso, che offre un’ulteriore prospettiva sulla stessa storia, sullo stesso argomento o sullo stesso tema; o perché l’autore, lavorando con l’intenzione di produrre qualcosa di differente da quanto avesse precedentemente scritto, rivela in controluce il lavoro che aveva invece condotto sull’originale. Una penna versatile come quella di Dino Buzzati, i cui interessi andavano dal giornalismo, al romanzo, alla poesia, alla narrativa breve, al teatro – con frequentissime incursioni nelle arti figurative –, non rinunciò ad adattare per la scena uno dei suoi racconti più celebri, Sette piani: fu Strehler a chiederglielo, e il testo, col titolo Un caso clinico, andò in scena per la prima volta nel 1953[1].

Non fu l’unica volta in cui Buzzati riscrisse per un altro tipo di mezzo una delle sue storie brevi; questo avvenne anche per Il mantello, sempre trasposto per il teatro in forma di copione e in forma di libretto d’opera sulla musica di Luciano Chailly; per L’aumento, anch’esso destinato alle scene; per Eppure battono alla porta, che fu trasformato in Battono alla porta, opera musicale Prix Italia pensata per la televisione. Si aggiunga poi che Un caso clinico fu rappresentata non solo entro i confini italiani, ma anche in Francia, nella traduzione-adattamento di Albert Camus (1955): una pièce che dal pubblico francese fu percepita come terribile, una tortura non adatta a tutti i tipi di stomaco.

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Ritratto fotografico di Dino Buzzati – dominio pubblico. 

In effetti, l’agghiacciante semplicità della scrittura di Buzzati, che nei suoi racconti ha tutta la forza dell’ineluttabile e del necessario, conserva per Un caso clinico, addirittura amplificandola, quell’atmosfera di angosciosa attesa che appartiene già al racconto. L’adattamento rivela tutta la furbizia e maestria del suo autore: Buzzati lascia a intendere di stare riscrivendo una sceneggiatura molto fedele al soggetto originario – cosa che in effetti, almeno parzialmente, fa –, ma rispetto a Sette piani ne allarga le irradiazioni narrative per cerchi concentrici, facendo di una goccia uno specchio d’acqua, su cui lo spettatore riesce a vedere, dietro al proprio riflesso, tutta la complessità di una storia dal significato prima conchiuso nello spazio breve di un racconto sul tema del mistero della morte.

Sono infatti molto limitati i cambiamenti che intervengono direttamente sulla struttura già tracciata da Sette piani: si tratta per lo più di dettagli, come il mestiere del protagonista Giovanni Corte, che da avvocato, professione forse riecheggiata dal cognome, diventa dirigente di una società immobiliare quotata in borsa – ironia della sorte, il personaggio avrà poi a che fare con un edificio abbastanza particolare –; oppure come il nome del direttore della clinica in cui Corte viene ospitato, invece che Dati, il più duro ed enigmatico Shroeder – una scelta che miri alla reminiscenza del paradosso di Shroedinger?

Per il resto, Buzzati aggiunge soltanto, e quanto aggiunge pertiene pur sempre alla sfera del mondo immaginabile al di fuori della cornice narrativa che separa ogni racconto breve dall’invisibile che lo circonda; ovvero, quanto Buzzati aggiunge riguarda le peripezie che portano il protagonista a ritrovarsi nelle circostanze su cui invece la storia si apre senza troppe spiegazioni. Ma qui, in Un caso clinico, quelle peripezie escono dalla sfera dell’immaginabile e prendono una forma concreta: se è vero che esiste un’enorme differenza, in tutte le narrazioni, tra il detto e il non detto, è proprio dal non detto di Sette piani e dal detto di Un caso clinico che conviene partire – e cioè dalla più vistosa divergenza tra i due testi, visto che la trama di Sette piani trova spazio in Un caso clinico solo dal secondo tempo dello spettacolo in poi, mentre quanto viene prima ne costituisce l’antefatto.

Innanzitutto, Giuseppe Corte, che in Sette piani come nel secondo tempo di Un caso clinico, viene ricoverato col pretesto di una semplice precauzione medica in una clinica dall’organizzazione e dal personale diabolici, ha qui nella versione teatrale una famiglia. E differentemente da quanto sembrerebbe intuibile dal racconto, l’ormai non più giovane e indaffaratissimo (nonché stressatissimo) personaggio non si affida ai medici di propria iniziativa, ma su sollecitazione della giovane figlia, apprendista infermiera nella clinica – un cedimento che si rivelerà essere solo il primo di una lunga serie: perché, come accade anche nel racconto, la permanenza di Corte si trasforma in un’infernale catabasi attraverso i sette piani su cui sono disposti i pazienti della clinica, dai meno gravi dell’ultimo, ai moribondi del primo.

Il protagonista – e con lui, lo spettatore –, accetta di essere trasferito di reparto in reparto, di girone in girone, fin nelle fauci della morte, nell’attesa di un qualcosa che non arriva mai, la guarigione, e nel timore di un qualcosa di ben più misterioso che invece sta arrivando. Il tutto si verifica sotto gli sguardi reticenti degli infermieri e per opera delle scuse accampate dai medici, in un clima di silenzio che puzza di zolfo, e che sembra godere di quel supplizio inferto gratuitamente a un uomo spacciato. Il meccanismo della suspense – ed è il caso di parlare di meccanismo, in un testo da cui risalta un’immagine della morte come un qualcosa di mastodontico, disumano, fordista – funziona già a pieno regime nel momento in cui la trama di Sette piani si innesta in quella di Un caso clinico; e questo proprio perché in Un caso clinico la preparazione dell’effetto è iniziata molto prima.

Ma la maggiore inquietudine che incute il testo teatrale rispetto al racconto non è soltanto il risultato di un fattore temporale – aumentando l’esposizione al perturbante, se ne diminuisce la sopportabilità –, ma anche di un fattore qualitativo, in merito al tipo di preparazione che è stato svolto. Prima di tutto, Buzzati dissemina il primo tempo di presagi, fatti anomali, scene grottesche; inoltre, sempre nel primo tempo, gestendo la tensione secondo quello che potremmo dire uno schema a doppia forbice, si serve di una sorta di MacGuffin – in questo caso, un’operazione in borsa molto importante per gli affari della società immobiliare – per poi dare inizio alle peripezie cliniche di Corte proprio nel momento in cui le sue difficoltà lavorative arrivano a una soluzione.

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Fotogramma tratto da “Il fischio al naso” (1967), film di Ugo Tognazzi ispirato a “Sette piani” – dominio pubblico.

Ma, soprattutto, le pagine del primo tempo, nell’accumulare nuova sostanza narrativa sul soggetto fornito da Sette piani, allargano anche, per forza di cose, il ventaglio dei personaggi comprimari e di cornice. Macchiette, a volte anche solo apparizioni, che, paradossalmente, anziché ostacolare il processo di immedesimazione nel protagonista, lo potenziano. Alcune scene nemmeno vedono la presenza di Corte, ma il presentimento che se ne ricava, e cioè che un qualcosa più grande di lui trami alle sue spalle, accresce la sua statura di vittima. Le vicende suscitano così, anche in chi le guarda dall’esterno, un odio quasi fantozziano nei confronti dei persecutori tanto quanto nei confronti dell’impotenza del perseguitato.

Già, ma quali persecutori? Se grande letteratura si chiama quella che aspira a formulare domande piuttosto che risposte, è forse questa una delle molte domande irrisolte del testo di Buzzati. I medici sornioni, certo. Ma è troppo poco. Ed ecco, infatti, un elemento di novità rispetto a Sette piani, uno dei pochi che interessano la seconda non meno che la prima parte di Un caso clinico: Giovanni Corte è oggetto dell’apprensione dei familiari, che lo convincono a farsi visitare, perché sente delle voci; o meglio, sente una voce, una voce che lo chiama, e che si concretizzerà nelle vesti di un surreale personaggio – una specie di spettro, o di parca, che cuce, intona litanie e si nasconde negli armadi, e che sembra essere ben noto agli altri ospiti della clinica.

Ora, questa “figura” della vocazione dell’uomo per la morte è certo qualcosa di simbolico, ma, se letta come irreale, di riconducibile all’interiorità stessa del protagonista. In fin dei conti è Corte ad accondiscendere, di volta in volta, a scalare di un piano in più. Sette piani fa accettare al lettore il proprio schema d’avanzamento – incalzante ma ripetitivo – in modo quasi naturale, e non troppo sofferto, per il fatto di rimanere, tutto sommato, un racconto con una sottotrama di concetto, la metafora splendidamente congegnata di un groviglio facile da comprendere se inespresso, ma difficile da esprimere.

Le necessità legate al genere teatrale di Un caso clinico impongono invece che le asperità del concetto ricevano una drammatizzazione: il rapporto dilemmatico tra vitalismo e predestinazione alla polvere, entrambi innati in ogni essere vivente, si incarna quindi nella seconda vera novità del testo, e cioè la maschera del professor Claretta, il dottore che più di ogni altro segue il caso di Corte. Questi assolve al ruolo di esternare rispetto al personaggio del protagonista la congiura della morte – e cioè la congiura che si porta dentro chi viene al mondo senza essere al corrente delle conseguenze –, altrimenti inspiegabile, se interpretata alla lettera in relazione al sadismo dei medici.

Si noti che in uno degli ultimi quadri di Un caso clinico, Giovanni Corte, per errore, entra nella camera di un altro paziente e intrattiene con lui una strana conversazione. Questo personaggio riposa nel letto con le saracinesche abbassate: un dettaglio che non potrà sfuggire al lettore che conosca bene Sette piani, dove si spiega quasi subito che è ai pazienti morti che vengono abbassate le saracinesche. Anche nel finale, dopo un ulteriore ultimo sdoppiamento del protagonista – che invita la madre a salutare da parte sua Giovanni Corte – sulle finestre in scena cala la medesima oscurità.

Così nello sbiadirsi, alla prova dei fatti, del confine che separa la vita e la morte e che non impedisce a Corte di parlare con un defunto, Buzzati ci chiede: noi siamo fuori o dentro la clinica? Siamo il viavai frenetico della città dei “sani” oppure la vocina che ci chiama nel buio e ci domanda che senso abbia tutto questo? Siamo la forma o il contenuto? Siamo «argilla nelle mani del vasaio» oppure il «fumo […] della fornace» che «sale per i secoli dei secoli»? Giovanni è il temuto imprenditore o la larva alla fine dei giorni? In quel progressivo annullamento della volontà cui è sottoposto, Corte è il gatto insieme vivo e morto di Shroedinger. Perché noi siamo volontà, nient’altro che uno spiffero di volontà, e la vita, nella sua corsa verso la morte, è la battaglia persa della volontà contro un paraspifferi.

Elisa Ciofini

[1] È disponibile sul sito dell’Archivio del Teatro Stabile di Torino il copione utilizzato nella produzione 1957/58, per la regia di Giacomo Colli.

Immagine di copertina: Vincent van Gogh, Corridoio nel manicomio – dominio pubblico (https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Corridor_in_the_Asylum?uselang=it#/media/File:Vincent_van_Gogh_-_Corridor_in_the_Asylum.jpg)

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