Uvaspina: un bildungsroman napoletano, tra mito e contemporaneità

Uvaspina, Monica Acito

(Bompiani, 2023)

Uvaspina_copertinaChe prodigio quando, dal mare mosso e sempre in piena delle uscite editoriali italiane, emerge un esordio che porta con sé venti antichi ma di una freschezza sorprendente. Quello di Monica Acito è un romanzo che nasce dalle acque che hanno partorito Napoli, dai racconti che ne hanno nutrito il mito, dall’odore delle sue strade, dai corpi che la animano, dalle voci degli autori che prima di lei ne hanno scritto. Uvaspina è un romanzo straripante e chi si accinge alla lettura deve essere pronto a bagnarsi nei suoi liquidi, berne i succhi incantati e curativi, e perdersi nell’ineluttabile cozzare del sacro e del profano del suo impossibile carnevale.

“Quella festa faceva piangere, perché ricordava che il popolo di Napoli nasceva dal mare e nel mare fabbricava le sue maschere: le forgiava con i coralli ed erano maschere toste che si appiccicavano bene sulla faccia. E della gente di mare non ci si può fidare, perché si lamentano e ridono insieme, e anche il loro lamento alla fine diventa una presa per culo e una pernacchia.” (p. 378)

Questa “arte del chiagnere e fottere” è caratteristica di Graziella detta La Spaiata, chiagnazzara di professione in cui l’anima della nobile e antica prefica è stata destituita a favore di una farsesca matrona forcellara. Dopo anni passati ad essere pagata per piangere ai funerali, del pianto e del lamento ha fatto un’arte con la quale ha ammaliato Pasquale Riccio, giovane rampollo di buona famiglia, notaio e presidente del Circolo Nautico di Posillipo. La loro è una passione selvatica che si trasforma in un matrimonio molto contestato – soprattutto dalle donne della famiglia Riccio, che si mettono scuorno di Graziella, una pezzente opportunista che ora può fare la signora e passare le giornate seduta su un balcone con vista sul Golfo di Napoli.

Tuttavia, il mestiere di chiagnazzara torna utile alla Spaiata quando, ogni mercoledì sera, Pasquale Riccio si mette in ghingheri per uscire senza di lei, che ormai ha la ricrescita visibile al centro della testa e le rughe e le tette scese. E allora Graziella, maschera grottesca che dai morti ha imparato a morire e risorgere all’occorrenza, mette in scena la sua personale via crucis che dal bagno passa per il soggiorno per poi finire nella camera da letto, ultima e tragica stazione, quella dove inscena la sua morte sotto gli unici occhi dei figli.

Uvaspina è stato concepito tra gli alberi e gli arbusti. Dopo un amplesso stesi sul muschio, Graziella si accorge di avere la veste macchiata dal succo di qualche frutto selvatico: nel cogliere la bacca di ribes, si punge e succhia forte il dito. In una breve e secondaria scena della narrazione si esaudisce la parodia di un mito cosmogonico, quello della nascita del protagonista dell’universo-libro: Carmine, detto Uvaspina a causa della voglia a forma di acino d’uva sotto l’occhio sinistro. È il femminiello, una divinità terrena e profana, creatura libera e metamorfica, il cui succo impregna tutte le pagine del libro. È del suo succo che si nutre Minuccia, la sorella minore, concepita, invece, dopo un funerale.

Interessante e complesso è il rapporto tra i due fratelli che regge tutta la trama del romanzo. Simile di aspetto al fratello e opposta nell’indole, Minuccia è il doppio diabolico di Uvaspina: è l’animale che lo tiene sveglio la notte con pizzichi e tormenti, è lo strummolo, la trottola che quando si inceppa risucchia tutto quello che ha attorno. È dalla sua bocca che la parola “femminiello” esce con una viscidità e un puzzo peggiore di quello che Uvaspina si sente addosso quando a pronunciarlo sono i suoi compagni di classe. Ma Uvaspina non reagisce mai alle sue cattiverie, si lascia spremere e schiacciare, bestia sacrificale, per lenire i dolori della sorellina, attenendosi sempre al ruolo datogli dal suo nome, ovvero quello di un frutto destinato ad essere pestato “per farci sciroppi che guariranno le malattie degli altri.” (p.21)

La famiglia Riccio è un presepe contraffatto e governato dallo strummolo, in cui ogni statuina diventa la parodia di sé stessa e l’unico amore possibile è quello che dà calci, pugni e graffi, che jastemma e chiagne e fotte. Uvaspina cresce come un frutto che a Napoli stona, è un abominio e l’unica mitologia possibile per una rarità come lui è quella della sopportazione. Tutto quello che può fare è sopportare i soprusi della sorella perché il legame di amore e odio che c’è tra loro è la cosa più terribile e preziosa che abbia. Un legame magico, quello tra Uvaspina e Minuccia, forgiato da una vela di piombo, apparsa ad entrambi i fratelli nel rito del chiummo, durante la notte di San Giovanni.

L’autrice al suo esordio si dimostra abile e matura nel creare un meraviglioso impasto di realtà e magia, sogno e incubo, mito e superstizione, che regge una trama coerente e ben sviluppata: quella vela, incisa sulla sua pelle, è la profezia della rinascita di Uvaspina e insieme della sua condanna. Sarà proprio un pescatore dagli occhi diversi, uno del colore dei boschi e uno marrone come i tombini, a salvare Uvaspina da sé stesso prendendolo per una caviglia, un gesto dalla forte simbologia maieutica: pescando il ragazzo nuovamente partorito dal mare, Antonio sarà colui che inizierà Uvaspina all’amore, al sesso, alla conoscenza della propria verità.

Ma così come opposti e inscindibili sono i colori dei suoi occhi, opposte e inscindibili sono le anime di Napoli – una che piange tendendo al cielo; e una intrappolata nelle catacombe –, opposti e inscindibili sono i due fratelli, così anche quella felicità sconosciuta non può fare a meno del dolore, della disillusione e dello scuorno; non può che essere vissuta in segreto, all’ombra del palazzo Donn’Anna.

Portentoso è il linguaggio con cui Monica Acito intesse questo bildungsroman napoletano: l’impasto di italiano e dialetto della terza persona narrante rende estremamente vivi ed espressivi tutti i personaggi, li carezza e li percuote. Le innumerevoli metafore e immagini danno vita a scene sguaiate, veraci, liriche, che hanno un’anima antica e arcaica. Come in un lungo sogno – o in un mito – il linguaggio simbolico permette di immergersi a varie profondità nella lettura, dando l’impressione di sprofondare in una realtà caleidoscopica popolata da personaggi archetipici e familiari, tutti sapientemente costruiti e con un proprio linguaggio e una visione del mondo.

In questo carnevale di forme e corpi, però, non sembra esserci la possibilità della redenzione. Tutti i personaggi procedono verso la fine tentando disperatamente di cambiare il loro destino, di fotterlo, chi con le unghie e col sangue, chi con le lacrime, chi con la stregoneria. Ma il loro rimarrà un carnevale a metà, senza liberazione, perché Napoli è un dio indifferente e opportunista, che dà tanta vita quanta ne toglie, da sempre e per sempre. Per Uvaspiana l’unico modo di sopravvivere al suo morbo cancrenoso e purulento e non annegare nel suo mare meraviglioso e maledetto è aggrapparsi alla bellezza delle storie e dell’amore.

Beatrice Palmieri

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