Quinzinzinzili, Régis Messac
(Edizioni Tlon, 2023)
È facile essere misantropi in un mondo pieno di gente; molto più difficile è restarlo anche in un mondo vuoto. Mantenere intatta la propria disillusione non è l’intento esplicito che il protagonista di Quinzinzinzili si propone, ma è sicuramente la spina dorsale che mantiene ritta la narrazione in prima persona di tutto il romanzo.
Considerato quanto le premesse della breve opera di Régis Messac appaiano plausibili già ora, è sorprendente pensare che nel 1935, quando è stata scritta, non fosse già stata accolta come una profezia: le tensioni internazionali tra i due schieramenti che fanno perno rispettivamente sulla Germania e il Giappone e sull’Inghilterra e la Francia sono più forti che mai. Sui giornali si evoca di continuo la Seconda guerra mondiale, ora come spauracchio, ora come unica soluzione ai misteriosi macchinamenti militari giapponesi. La società civile risponde come può, come deve: i bar si riempiono e si svuotano ciclicamente, qualche ricca signora parigina lancia la moda della maschera a gas legata come una cintura lungo i fianchi, i bambini continuano ad andare a scuola, ogni tanto si ammalano e finiscono al sanatorio.
È proprio in un sanatorio sulle montagne che il protagonista, il maestro Gérard Dumaurier, accompagna due piccoli allievi con un inizio di tubercolosi. Non c’è nulla di strano nelle notizie che giungono dalla radio: nuove piccole offensive lanciate da uno stato all’altro, la voce di uno supposto gas letale progettato da un oscuro scienziato giapponese. Gérard accompagna i bambini a visitare una grotta vicina al sanatorio quando la bomba detona: nell’arco di pochi minuti, la popolazione è sterminata, il mondo esterno è avvolto da una cappa di gas giallastro e asfissiante, e, per quanto ne sa l’istitutore, gli ultimi esseri umani rimasti sulla terra sono i cuccioli d’uomo che si trovano con lui nella caverna.
È da questo punto che Régis Messac dà vita a una dimensione distopica che risulta strabiliante, se si considera che risale a quasi un secolo fa. Attraverso lo sguardo pazzescamente cinico e sprezzante di Gérard, si assiste alla lenta costruzione di una nuova società in miniatura: i bambini, colpiti nel fisico e nella psiche dall’improvvisa obliterazione di tutto il mondo conosciuto, regrediscono a uno stato bestiale, che mescola l’ingenuità dei giochi infantili a una brutalità ottusa e violenta. Persino la lingua cambia, resa più nasale da un’alterazione delle vie respiratorie dovuta probabilmente al gas, e dalla contrazione delle parole sulle lingue dei ragazzini.
Tra i primi complessi di valori a venire inventati c’è ovviamente la religione: Quinzinzinzili (che altro non è che un Qui es in coelis rimasticato e nasalizzato) è il loro dio, il loro signore delle mosche, che domina il fuoco, la morte e la vita; i rapporti di potere, la maschilità e la femminilità – tutto segue il volere di Quinzinzinzili per queste piccole bestie, che crescono così diverse dai loro defunti progenitori da poter essere considerati, almeno secondo Gérard, una specie del tutto diversa.
Quinzinzinzili si colloca bene nella proposta editoriale di Tlon, fosse anche soltanto perché si presta come ottima testimonianza di quale aria si respirasse in Europa negli anni Trenta, e che insieme di fantasie suscitasse. Régis Messac non gode oggi della notorietà che probabilmente meriterebbe: pur con qualche manierismo alla fin fine tipico della sua epoca, ha il grande merito di essere stato un antesignano di molti immaginari fantascientifici moderni, e di aver colto il potenziale e la profondità di quello che è stato troppo a lungo considerato un genere solo paraletterario come la fantascienza.
Pure nella sua brevità, si tratta di un romanzo fortemente politico, che certamente pesca a piene mani dalle suggestioni pacifiste e anarchiche dell’autore, ma che offre una dualità di prospettive davvero singolare: lo sguardo del protagonista Gérard è utile al lettore per osservare da vicino l’agire dei nuovi, bestiali piccoli umani, sufficientemente vicino da restare turbati. Ma non passano molte pagine prima di trovarsi egualmente inquietati dalla decisa, tenace misantropia del protagonista, che osserva questi ragazzini violenti e sudici litigare e rotolarsi sul pavimento della caverna, maneggiare cimeli di un tempo andato e pregare il dio del fuoco, e non smette un secondo di sperare che alla fine muoiano tutti.
Quinzinzinzili segue dunque la (ri)nascita di una società subito dopo la catastrofe; ed è come se ci portasse a chiederci come davvero vada vista questa nuova società, se non è proprio quella che ci aspetteremmo. La nuova umanità fissa i propri codici di comunicazione e relazione a una velocità accelerata, forse coerente, per un verso, con l’accelerazione che caratterizza il modo che ha la modernità di avanzare; e ne accenna tante modalità di evoluzione interessanti, da quella linguistica a quella affettiva.
L’edizione Tlon è poi splendidamente arricchita dalla postfazione di Andrea Esposito e dalla prefazione dell’autore apparsa sul volume originale del 1935, che apriva la prima collana di fantascienza in Francia. Quel che spicca di più nel romanzo Messac non è la catastrofizzazione dei pericoli della guerra, o il monito contro la brutalità dei rapporti sociali, quanto la spietata, innegabile insignificanza della specie umana. Paradossalmente, però, questo cinismo cosmico è ben controbilanciato dalla prefazione, da cui traspare uno sconfinato amore per la letteratura, e per un’immaginazione che sia in grado di figurarsi mondi alternativi (i cosiddetti Hypermondes, per usare un neologismo dell’autore).
Messac sapeva bene quanto può abbassarsi l’umano, se solo gliene si dà occasione. Conosceva però anche il suo smisurato desiderio di ignoto: quel desiderio “di partire per andare ovunque purché sia fuori dal mondo“; e quando si apre il libro giusto, infatti, è proprio come aver “pronunciato le parole cabalistiche che abbattono le barriere del reale“.
Emma Cori