Cadere a pezzi: “Frana” di Laura Scaramozzino

Frana, Laura Scaramozzino
(Revolver, 2025)

Frana è la raccolta di racconti pubblicata da Revolver che segna l’esordio editoriale di Laura Scaramozzino, già autrice di testi comparsi su diverse riviste letterarie, come biró, Calvario, GELO, Inkroci, Malgrado le mosche e Nazione Indiana; alcuni degli scritti racchiusi dentro Frana provengono proprio da lì, da quelle pagine. Altri, invece, sono inediti. In tutto si tratta di ventitré racconti brevi, spaccati di quotidianità che scavano nelle pieghe più fragili e disturbanti dell’animo umano, storie che parlano di vite comuni e cedimenti inevitabili, di realtà che si sgretolano piano piano. Il titolo Frana è evocativo e si adatta alla perfezione al filo conduttore dell’opera, ossia il crollo in tutte le sue sfumature: fisico, emotivo, morale.

«Tornando a noi, dopo le prime difficoltà, la mannaia è entrata nella carne bianca come fosse burro. Concluso il lavoro, ho raggiunto mia sorella, mi sono seduto sul letto e l’ho strattonata»

È una citazione dal racconto Sharon, nel cui finale appare un dettaglio magico, surreale, e che ha come protagonisti i membri di una famiglia disfunzionale. Quest’ultimo è un tema molto ricorrente in Frana, soprattutto nella declinazione del rapporto madre-figlio o madre-figlia. Le madri sono lontane da ogni idealizzazione e non sono quasi mai figure protettive. Ne L’acqua piace a tutti i bambini, con un gesto che è al contempo carezza e minaccia, una madre sprofondata nella vasca da bagno chiama a sé il figlio come se desiderasse riportarlo nell’acqua originaria, nel grembo, per dissolversi insieme a lui. Il materno diventa dunque luogo di perdita, di fusione impossibile, di tentativi disperati per sottrarsi alla solitudine, di colpa che si tramanda come una pesante eredità.

L’acqua è un elemento cardine della raccolta: ricca di significati nascosti, scandisce momenti di passaggio ed è per i personaggi uno spazio di confronto con la propria vulnerabilità e con il desiderio, spesso inconscio, di annullarsi. In Slow Core torna la vasca come zona di sospensione in cui il corpo femminile, immerso, vaga tra lucidità e smarrimento. Ne Il corpo che non sa, invece, il mare è un ambiente di confine, teatro di un rito quasi iniziatico che mette in contatto vita e morte. Alla comparsa dell’acqua si associa quasi sempre una disgregazione della realtà. In questo senso, l’acqua può essere letta come una metafora della frana interiore, che spesso non è un crollo improvviso, ma un lento scivolamento verso un’identità frantumata.

«Sott’acqua chiudo gli occhi. Il silenzio mi implode cupo nelle orecchie. Soffro il peso del mare, eppure resisto»

Anche nel racconto che dà il titolo alla raccolta la frana è una deflagrazione interna, la discesa nell’abisso dell’amore malato. La voce narrante è quella di una donna che ha amato Ed Kemper, il serial killer americano davvero esistito, e che, dopo il suo arresto, tenta di contenere la caduta in pezzi del mondo intorno a sé. Lo smottamento è mentale, linguistico, morale. È un cedimento totale. Tutto si deforma in una visione quasi baconiana, richiamata dal riferimento iniziale allo Studio dal ritratto di Innocenzo X proprio di Francis Bacon. Il testo alterna il ricordo dell’amore alla presa di coscienza dell’orrore. La frana è il momento in cui le due parti collassano l’una sull’altra. Persino il linguaggio si disfa, come la carne delle vittime di cui parla, e ogni immagine di tenerezza si mescola alla decomposizione.

«Mi sono gettata sul letto. La pelle bruciava contro la federa del cuscino. C’è una poesia, ho ricordato, che parla di un cimitero sopra una collina. Ogni morto ha una tomba e una storia che lo racconta. Il corpo intero lascia un’impronta nel luogo in cui riposa. Le ragazze, che hai gettato nel bosco, erano solo resti sparsi. Un braccio da una parte, un torso dall’altra. Si può raccontare la storia di un piede? L’amore infelice di una mano mozzata?»

E il corpo è la prima frontiera della frana. Un territorio di resistenza, violenza, desiderio e dissoluzione. Scaramozzino lo descrive con un’attenzione chirurgica, carnale, spesso disturbante, come se nella carne si rivelassero tutte le tensioni psichiche dei personaggi. Il corpo è un organismo che reagisce, implode, si ribella. Non è mai solo un involucro. Riporto un estratto del racconto L’elefante nella stanza.

«Il corpo è compatto. La testa, larga come uno scatolone, grava su un corpo rigido e massiccio. La crocchia dei capelli bianchi è gigantesca. Ricorda un blocco di fieno. Sembra che stia dormendo. Gli occhi chiusi, grandi come vassoi. Le labbra rosse hanno le dimensioni delle foglie di banano»

Tutte le vicende si svolgono sempre sullo sfondo della quotidianità, osservata con un realismo perturbante. Scaramozzino ambienta il disastro nel consueto: le case, i supermercati, le cucine, le scuole. Tutto ciò che è familiare diventa inquietante, come se dietro la superficie ordinata della vita di routine si aprisse una crepa invisibile. Ed è lì che si inserisce l’occhio dell’autrice.

«Anche oggi Giulia va a fare la spesa. Dalla stazione della metro risale il corso e ne attraversa un altro. Entra in un supermercato in cui i commessi ingrassano e dimagriscono, senza mai coordinarsi fra loro. Il ragazzo addetto alla frutta ha perso venti chili. I pantaloni gli cadono sui fianchi»

La lingua di Scaramozzino oscilla tra lirismo e crudezza, con un registro per lo più medio, tranne qualche caso in cui si abbassa leggermente. Grande spazio viene concesso alle descrizioni degli ambienti, dei personaggi e delle loro azioni. Uno dei segni distintivi dell’autrice e del suo stile visivo.

Per concludere si può dire che non c’è redenzione né catarsi nelle pagine di Frana. Ci sono frammenti di vite sospese, sguardi su chi vive sull’orlo del baratro e non può più tornare indietro. Ma la frana è anche trasformazione, passaggio, un modo per scoprire cosa resta quando tutto il resto si è dissolto. Di certo resta un profondo senso di inquietudine. Che è ciò che si prova anche alla fine di ogni racconto firmato da Laura Scaramozzino.

«Prima di perdere i sensi per un’ultima volta, l’uomo prova un senso di sollievo. Per lo meno, non dovrà più chiedersi che cosa farebbe senza di lei»

Marta Grima

(immagine in evidenza di Jordan Garner da Pixabay)

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