È un periodo in cui ricevo un sacco di consigli letterari, per mia fortuna! La settimana scorsa un mio carissimo amico mi ha regalato il famosissimo libro di P. K. Dick: “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”che ha ispirato il (meraviglioso) film “Blade Runner”, con la promessa che lo avrei recensito. Ed eccomi qui: promessa mantenuta, Fabio!
Comincerei col dire che, avendo già visto il film e amandolo alla follia, avevo più di una vaga di ciò che avrei potuto aspettarmi: molti temi filosofici, distopici, un’atmosfera cupa, un certo umorismo sottile e una grande quantità di problematiche attuali portate all’estremo. Insomma, qualcosa mi immaginavo, ma in realtà non potevo immaginarmi tutto.
La storia è molto semplice e lineare, in effetti: dopo una Guerra Mondiale che ha distrutto il pianeta Terra così come lo conosciamo, radendo al suolo quasi tutto e condannando l’uomo a colonizzare lo spazio, a San Francisco Rick Deckard, cacciatore di taglie per il Comune, si vede affidatagli una missione complicata: ritirare dalla circolazione otto androidi di un modello estremamente tecnologico e complesso da riconoscere (si mimetizzano tra gli umani). La quantità di tematiche e domande che stimola questa trama, che Dick riesce a porre attraverso questa storia, sono sconvolgenti.
Il libro è stato scritto nel 1968, e uno non ci pensa molto mentre legge questo libro: sembra sia stato scritto l’altroieri, viste le tematiche trattate. Dick da questo punto di vista ha una capacità impressionante nell’identificare questioni di ieri, che sarebbero stati problemi oggi, che saranno disastri domani: mi riferisco ovviamente all’inquinamento, ai problemi ambientali che contribuiscono a creare un’atmosfera claustrofobica ed invivibile nei paesaggi descritti nel romanzo. C’è una polvere perenne che circonda tutto e tutti; e poi c’è una cosa chiamata “palta”, una specie di caos sempre crescente che inonda tutto, e che ricorda molto il concetto di entropia. Non stupisce quindi che la Terra da Dick descritta sia quasi totalmente desolata: un grande deserto di detriti e polvere con pochi nuclei abitativi e grandi distese di condominii abbandonati (o quasi). Le persone scappano su Marte e sono incentivati dai governi ad andarsene, regalando addirittura androidi aiutanti e da compagnia; tutto questo perché, anche se Marte è sostanzialmente un pianeta inabitabile, è sempre meglio della Terra, un pianeta non più recuperabile. Il tema della migrazione non è forse il più centrale all’interno del romanzo, ma viene fuori più d’una volta, visto da ambo i lati: sia da chi resta e da chi se ne va. Chi resta vorrebbe andarsene, e chi se ne è andato è pervaso da un profondo senso di solitudine, ritrovandosi in un pianeta assolutamente invivibile. Il problema, è che in questo libro ci si sente soli ovunque, e forse è questo il destino che Dick prospetta all’umanità futura (neanche tanto a torto, a mio modesto parere): agglomerati densissimi di gente ma nessun legame profondo.
Poi, ovviamente, ci sono gli androidi: esseri organici che assomigliano in tutto e per tutti a degli esseri umani, ma nella sostanza non lo sono. Sono manchevoli di qualcosa, qualche reazione emotiva imprescindibile, come l’empatia, che impedisce loro di comprendere molte delle azioni fatte dagli esseri umani. Ciò a volte li rende spietati, freddi e calcolatori. Il nostro povero protagonista è sicuramente la chiave che ci connette con questi esseri, portandoci prima ad odiarli, poi a provare uno strano senso di empatia e compassione. Gli androidi vengono descritti come persone in tutto e per tutto, e questo ovviamente mette in difficoltà il lettore nel pensare che siano solo e soltanto macchine create ai tempi delle migrazioni verso Marte per aiutare gli umani: degli schiavi, insomma. È scontato dire che un androide è molto più che una macchina, ed è molto più che un agglomerato organico, ma è anche verso che c’è una diversità di fondo tra umani ed androidi. Per certi versi, la continua lotta degli umani verso gli androidi che tentano irrimediabilmente di mimetizzarsi, potrebbe dare qualche interessante spunto di riflessione rispetto ai temi raziali che oggi sono assolutamente centrali.
Ma la cosa che più mi ha sconvolto (e che nel primo Blade Runner non si evince quasi per nulla) sono gli animali. Gli animali! Sembra una fesseria, ma se si comprende questo semplice tassello del libro, forse, si comprende tutta la psicologia sottostante a questa umanità nuova (ma ugualmente umana, troppo umana) e questi droidi inediti. Durante tutta la durata del romanzo c’è una descrizione spasmodica di una grande quantità di animali: ovviamente, dopo la Guerra Mondiale, sono diventati una rarità vera e propria, e il costo è aumentato a dismisura. Gli uomini li comprano quando possono, e quando non hanno le risorse economiche optano per degli animali elettronici, superficialmente simili in tutto e per tutto ad un animale normale, ma di fatto delle macchinette progettate e programmate. La cultura degli umani è quella di ritenere che, accudendo un animale, si sia profondamente empatici e buoni; ciò li assolve sicuramente da qualsiasi problema morale ed etico. Dall’altro lato, chi possiede un animale elettrico non solo risulta, evidentemente, più povero, ma anche meno voglioso di prendersi delle responsabilità. Anche gli androidi, a volte, riescono a prendersi cura degli animali, ma la loro mancanza di empatia rende questo tipo di rapporti molto complesso e instabile.
Ora, io ho pensato per una serata intera a quali metafore sociologiche potessero annidarsi sotto questi benedetti animali, e sono arrivata a due idee: in primis, la rarità di questi animali è il simbolo dell’errore dell’umanità, che ha scatenato una guerra talmente dirompente da arrivare a distruggere un intero ecosistema. Così, l’umanità finisce per amare gli animali; lo fa proprio perché la rarità di queste bestie le ricorda ogni giorno del peccato commesso e perché, in fondo, è un buon modo di pulirsi la coscienza: prendersi cura di qualcosa di ormai già morente. In secundis, e non è una cosa molto diversa da quanto ho appena scritto, la società descritta da Dick è fasulla e artificiale, molto più degli androidi cui dà la caccia. L’umanità continua a vantarsi della sua presunta superiorità rispetto ai droni, e la loro capacità di prendersi cura degli animali è la loro prova schiacciante per dimostrarlo; è solo una facciata che è rimasta per credere di saper provare ancora un briciolo di empatia, anche se poi esistono delle macchine che inducono artificialmente ogni umore possibile.
Vorrei però proporre l’interpretazione dell’amico che mi ha regalato questo libro, che ha dato un’interpretazione sicuramente più profonda della mia: “Io penso che siano vere entrambe (le teorie sopra esposte), unite addirittura! Chiunque possieda un vero animale è considerato un élite. I androidi ‹‹sognano pecore elettrice››, nel senso che sperano in una vita migliore, affrancati dalla servitù imposta loro dagli umani. Gli animali sono il confine tra vita reale e vita falsa. Gli animali reali ricordano agli umani di essere veri, sono il simbolo della loro umanità. Ed ecco perché non amano gli animali replicanti, perché non ci si sente abbastanza umano con essi, si insinua un dubbio fastidioso. Per gli androidi, invece, gli animali sono la speranza di una vita migliore”.
Insomma, per concludere: leggere questo libro ci ricorda che il confine tra umano e disumano, persona e non-persona, è estremamente labile e facile da sgretolare. In questo libro ci sono esseri umani non-umani ed androidi che avrebbero sicuramente meritato di vivere. Così come in questo libro c’è la visione di un’umanità alla fine di una lenta agonia della quale io non stento ad identificare l’origine. Chissà come ha fatto Dick nel ’68, questo mi chiedo.
Clelia Attanasio