La stagione della migrazione a nord: capolavoro da scoprire

Definito un classico della letteratura africana e araba moderna; il più grande romanzo arabo del XX secolo; uno dei 100 libri migliori di tutti i tempi. Come premessa può bastare?
Il libro in questione è La stagione della migrazione a Nord, dell’autore sudanese Tayeb Salih (1928-2009), che Sellerio ha avuto il merito di portare per la prima volta in Italia nel 1992 e riproporre in una nuova edizione qualche anno fa con una fedele traduzione.

stagionePer comprendere cosa questo romanzo sia, cominciate col prendere uno stato africano grande sei volte l’Italia, attraversato interamente dal Nilo e all’interno del quale si mescolano la cultura africana e quella araba. Inizia ad arrivare un po’ l’idea dell’atmosfera? Stiamo parlando del Sudan.
Prendete adesso uno scrittore che ho scoperto grandioso, Tayeb Salih, che in un piccolo villaggio sulle rive del Nilo ambienta questa storia. A tale storia aggiungeteci un po’ di Borges e un po’ di Kafka, quanto basta, declinati con originalità, senso di appartenenza e sagacia narrativa in salsa arabo-africana.
E per concludere mescolate a tutto questo: mistero, conturbamento, fascino, uno stile ora spietato ora elegantissimo, sovrapposizioni temporali, un doppio narratore che, attraverso un meccanismo narrativo di scatole cinesi, instaura un gioco di specchi sull’identità, l’inganno e la menzogna.

Ecco, questo e molto altro è La stagione della migrazione a Nord.

Il narratore torna in Sudan dopo lunghi anni trascorsi in Inghilterra per studio, dove si è occupato di poesia, ottenendo un dottorato. Sul solco della grande letteratura sui ritorni, da Omero fino a Kundera, il protagonista tenta di riappropriarsi di un posto nel mondo che aveva lasciato e che non sembra più appartenergli – tanto era cambiato nel villaggio e soprattutto tanto era cambiato lui.

Tra gli elementi di novità nel microcosmo ritrovato, uno in particolare attira la sua attenzione: la presenza di un forestiero ormai trasferitosi stabilmente nel villaggio. Subito qualcosa sembra non quadrare agli occhi del narratore: chi è costui?

La risposta pare immediata: Mustafà Sa’ìd, a questo nome risponde il forestiero.

“Mio padre disse che Mustafà non era del paese, ma era un estraneo giunto da cinque anni, che aveva comprato un podere, costruito una casa e sposato una delle figlie di Mahmùd. Un uomo che si faceva i fatti suoi, non ne sapevano molto.
Non so bene cosa suscitò la mia curiosità, ma mi ricordai che il giorno del mio arrivo stette in silenzio. Ognuno mi fece domande e ad ognuno ne feci anch’io. Mi chiesero dell’Europa […] Mustafà invece non aveva detto nulla. Era rimasto ad ascoltare in silenzio, sorridendo di tanto in tanto, di un sorriso che adesso ricordo oscuro, come qualcuno che parli con se stesso.” (pp. 24-25)

Resto in eclissi per raccontare ancora con le parole del narratore stesso:

“All’incirca una settimana dopo, successe una cosa che mi sconcertò. Mahgiùb mi aveva invitato a bere in compagnia e mentre stavamo vegliando, venne Mustafà per parlare di un certo affare del consorzio. Questi lo invito ad accomodarsi… Ancora una volta notai quel velo di fastidio insediarsi fra i suoi occhi, ma comunque si sedette e ritornò subito alla sua naturale calma…
Mustafà seppellì la propria figura nella poltrona e distese le gambe, stringendo il bicchiere con tutt’e due le mani mentre i suoi occhi si libravano, almeno così le immaginai, in orizzonti lontani. Poi, tutt’a un tratto, gli sentii recitare dei versi in inglese con una voce e pronunzia corretta… Quindi sospirò, sempre stringendo il bicchiere fra le mani, mentre i suoi occhi si erano librati dentro se stesso.
Vi assicuro che se all’improvviso un demonio vomitato dalla terra mi si fosse parato contro, eruttando vampe dalle orbite, non sarei stato più atterrito di com’ero. D’un tratto fui ossessionato dalla sensazione atroce, d’incubo, che noi uomini riuniti in quella stanza non fossimo realtà, ma mera visione.” (pp. 31-32)

Da qui in avanti nulla più sarà lo stesso, e il Narratore avvia la sua indagine su Altayb-SalehMustafà Sa’ìd, l’uomo che definiva se stesso ‘una menzogna’. Il nastro si avvolge e tassello dopo tassello si ricompone il mosaico della sua vita, degli orrori che invadono il suo passato, delle incognite che ingombrano il presente di lui e di tutti al villaggio. Tuttavia è un mosaico cangiante e impreciso come visto attraverso lo sguardo d’un caleidoscopio

Sono trascorsi esattamente cinquant’anni da quando Tayeb Salih ha pubblicato questo romanzo. Correva l’anno 1967, lo stesso in cui, dall’altra parte del mondo, uno scrittore colombiano sul baratro pubblicava Cent’anni di solitudine.
La stagione della migrazione a Nord continua a mantenere vive malia e grandezza, e si rivela un romanzo enigmatico, profondo, anche crudele e sagace. Sul suo proscenio identità, menzogna e verità si muovono in una danza letteraria affascinante e degna della più alta Letteratura. Se non si fosse ancora capito, è capolavoro.

– Giuseppe Rizzi –

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