Isola
Siri Ranva Hjelm Jacobsen
(Iperborea, 2018, trad. Maria V. D’Avinio)
Nessun uomo è un’isola, diceva nel ‘600 il religioso inglese John Donne, in una frase che Hemingway avrebbe reso celebre. La scrittrice danese Siri Jacobsen, invece, sembra ribaltare tutto. L’isola, le isole del suo romanzo (appena pubblicato da Iperborea), in fin dei conti hanno tante affinità con gli uomini; e soprattutto con la voce narrante di questa storia – alter ego d’ispirazione biografica dell’autrice.
Sono isole permeate da una visione popolare, mitica, magica, che le vede quali galleggianti, che nascono in un giorno e altrettanto velocemente possono scomparire, isole senza una posizione fissa, prive di appartenenza.
“Alcune isole erano solo di passaggio… Venivano dal mare. Altre avevano una loro rotta, erano come uccelli migratori e ricomparivano sempre nello stesso luogo.”
Un’altra, Mykines “vagava senza pace, senza un posto stabile, finché un giorno s’incagliò davanti al fiordo.”
Anche Svìnoy “un tempo era un’isola galleggiante. Da dove veniva, nessuno sapeva dirlo, ma di giorno si teneva nascosta nell’abisso. Ogni notte spuntava in superficie e con un po’ di fortuna poteva capitare di vederla.”
Le isole in questione compongono l’arcipelago delle Faroe, sparpagliate in un lembo di mare tra la Scozia, la Norvegia e l’Islanda. Faroesi sono le origini della protagonista (e dell’autrice) e il suo viaggio in questa terra è il fulcro del romanzo.
Nata e cresciuta in Danimarca, la protagonista sente il bisogno di conoscere finalmente la terra e la cultura che ha dato i natali ai suoi nonni, che sente chiamare casa e a cui sa di appartenere. L’idea del viaggio scaturisce subito dopo la morte dei suoi nonni, abba Fritz e omma Marita, i quali rappresentavano per lei forse l’unico ponte in grado di connetterla con la sua terra.
Il viaggio tra le isole faroesi diventa un viaggio alla ricerca di se stessi e alla scoperta delle proprie origini. La protagonista, come dicevamo, ha tante affinità con l’isola. Le parole che il suo abbi (nonno) usava per parlare delle isole galleggianti (“da dove veniva, nessuno sapeva dirlo“, “vagava senza pace, senza un posto stabile”) sono un manto che aderisce perfettamente al suo corpo: lei è metà danese e metà faroese, e non conoscere questa seconda parte di sé equivale a conoscere se stessa solo parzialmente, a sentirsi appunto priva di un ‘posto stabile’, ‘vagando senza pace’, quasi che non conoscere la propria origine implica inevitabilmente ignorare anche la propria meta, la direzione verso cui si è diretti.
Lei era l’isola, e l’isola era lei.
La dimostrazione che anche un uomo può essere isola.
Alle pagine del presente, del viaggio della protagonista, si alternano eventi del passato, che capitolo dopo capitolo fanno emergere la storia di abba Fritz e omma Marita, i quali, sul finire degli anni Trenta, per inseguire i sogni e l’amore, e al tempo stesso, in un certo senso, anche per sfuggire da essi, lasciano le Faroe per la Danimarca. Sono pagine a volte anche dure, permeate da un senso d’abbandono, di rinuncia, quasi che la felicità sia un traguardo a cui, per quanto ci si sforzi, non si può arrivare mai. Vi si aggiungono le storie di Ragnar il Rosso e degli altri membri della famiglia di Fritz, a cui si incastrano gli eventi della Storia (la seconda guerra mondiale, la guerra fredda) che si palesa e interviene anche nelle remote Faroe.
(continua dopo l’immagine)

Eppure, la storia del viaggio della protagonista così come quella di Fritz e Marita, a lungo andare, si rivelano composti da un mero susseguirsi di eventi forse troppo slegati tra di loro. Inoltre, in ciascuna delle due dimensioni del romanzo, i ricordi e gli episodi si intrecciano in miscuglio temporale, in un costante andare e venire tra il prima che segue il dopo e il dopo che anticipa il prima. In altre parole, gli eventi sono presentati non nell’esatto ordine in cui sono avvenuti, ma in un disordine disordinato. L’aggettivo qui non è tautologico né pleonastico. Ci sono brillanti espedienti in cui i piani temporali sono proposti ingarbugliati in un ordine che l’autore tiene sotto controllo, con un effetto di disordine ordinato ben riuscito. Qui, invece, l’espediente non sembra gestito al meglio, e non di rado subentra una sensazione di estraniamento se non di confusione.
Ed è un peccato, perché la storia, l’ambientazione e lo stile dell’autrice componevano una miscela perfetta per un possibile grandioso risultato.
Ma il potenziale non è stato sfruttato a dovere, e si è costretti ad ammetterlo con grande rammarico. Gli eventi slegati e ingarbugliati spesso finiscono per far passare in secondo piano anche lo stile, che certamente merita attenzione.
Da una parte lapidario, estremamente coinciso, laconico, con frasi brevissime, pochissime virgole e tanti punti, ed è tipico della prosa nordica, trasmette come una sensazione di asfissia, quasi che il freddo tagliasse il fiato e si fosse costretti a prendere aria dopo appena poche parole. Dall’altra, questa caratteristica di freddezza è qui mitigata da una brillante voce colorita, metaforica, a volte poetica.
Uno stile, insomma, maledettamente perfetto per l’occasione.

Se non fosse per i limiti appena esposti, che quasi non permettono di entrare fino in fondo in empatia con la storia, quasi impedissero di toccare con la pianta dei piedi il paesaggio di brughiera faroese, e noi restassimo sospesi a un centimetro da terra.
L’opinione di chi scrive è che molto plausibilmente Isola (opera prima dell’autrice e, come detto, di forte ispirazione autobiografica) abbia avuto origine da vari appunti o pagine di diario che l’autrice aveva raccolto col tempo, ed è significativo il fatto che la storia sia poco ‘romanzata’ e molto ‘riflessiva’, forse alla quale per dare forma di romanzo a fine di pubblicazione, sono stati aggiunti i flashback su Marita e Fritz, più narrativi.
Può darsi che mi sbagli, si tratta solo di un tirare a indovinare.
Può anche darsi – anzi, è certo – che qualcun altro si trovi più a suo agio di me nella storia, e che non avverti affatto la sensazione di ‘disordine disordinato’ che invece ho avvertito io.
Una lettura ciononostante piacevole, tuttavia nella quale, ahimé, è mancato un surplus sperato e necessario.
Concludo con una postilla di merito per l’edizione: quanto bella è la copertina? Diciamolo, perché spesso gli illustratori rimangono immeritatamente in anonimato: l’illustrazione è opera di Federica Bordoni. E complimenti in generale a Iperborea che ormai fa edizioni sempre più graficamente belle.
– Giuseppe Rizzi –

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