Vent’anni, Corrado Alvaro
(Treves, 1930 / Bompiani, 2016)
Ogni generazione ha i suoi vent’anni, e ogni generazione ha i suoi traumi.
Corrado Alvaro – potremmo definirlo un classico dimenticato del primo Novecento, autore meritevole d’essere riscoperto – racconta i vent’anni e i traumi della sua generazione in un’opera che per lungo tempo è stata il manifesto, il documentario di un’epoca. Lo fa con l’acume di chi, al pari di pochi grandi letterati italiani, sa cogliere e decifrare i notevoli mutamenti in atto nella sua società prima di storici, sociologi e politologi, tanto da renderlo giustamente uno dei cantori della vera Italia.
Scritto nel 1930, Vent’anni è un romanzo di formazione su chi è stato suo malgrado (come lo stesso Alvaro) ventenne durante la Prima Guerra Mondiale, brevissima età di stravolgimenti epocali, che decreta la fine d’una civiltà e determina la nascita d’una nuova. I giovani d’allora si trovano da un mondo morente a ereditare dinamismo, utopie, illusioni, che dal tritaossa della Guerra fuoriescono quali frustrazione, disincanto, disillusione: tutti elementi che andranno ad alimentare l’urlo propagandistico in difesa dei delusi e depressi, quindi a rimpolpare l’allora nascente ideologia fascista e a delineare quella che sarà la società italiana per i decenni a seguire.
Il protagonista del romanzo è Luca Fabio, che, proprio come Alvaro, è un ragazzo del ’95 e arriva a Firenze da “un qualche paese dell’Italia meridionale” quand’ancora la guerra non coinvolge l’Italia, per frequentare da volontario la Scuola da Ufficiali del Regio Esercito Italiano. Luca Fabio è affascinato dal mito della guerra, e incarna lo spirito interventista di gran parte della gioventù italiana. La guerra, da tanti giovani, non era temuta, ma desiderata, secondo un canone culturale dominante nell’intera Europa di quel tempo [1].
Qui fa la conoscenza di un altro ufficiale, Attilio Bandi. Li lega una amicizia autentica e profonda: molto bello è il momento in cui entrambi, guardando il cielo notturno e identificando Orione, decidono di dividersi per loro quella costellazione come un patto fraterno. Insieme crescono, maturano, fanno le loro esperienze sentimentali, fino a quando, improvvisamente, si ritrovano in territorio di guerra.
Ciò che Luca Fabio scoprirà infine al suo percorso di formazione sui monti intorno all’Isonzo è che la guerra è ben diversa da come la immaginava, e non banalmente che la guerra è brutta e fa male. In essa non c’è nulla delle aspirazioni agognate, e tutte le speranze che ad essa s’erano affidate sono state infrante e rese vane. La distruzione non è soltanto quella del campo di battaglia, dei morti e dei feriti, ma parimenti quella dei superstiti. Gli effetti della guerra su chi ritorna sono funerei e ineluttabili.
«Che ci resterà da fare domani, se torniamo nel mondo? Temo che tutto ci parrà un gioco inutile. Bisognerà assumersi grandi responsabilità, altrimenti tutto ci parrà ozioso e misero. Immagineremo il mondo più grande, più bello, più nobile, più avventuroso, e ci cacceremo in tutte le imprese più disperate, in tutte le cause sballate […] Il nostro regno non verrà mai, perché è nei cieli, e non sulla terra.» (p. 362)

Il riferimento è chiaramente ai sentimenti e alla cultura che hanno determinato l’insorgenza e la diffusione del fascismo, a cui Alvaro – da antifascista qual è stato – probabilmente alludeva con “cause sballate”. Il fascismo e la nuova società italiana che esso ha instaurato hanno i loro prodromi proprio nella frustrazione di chi è tornato colonnello, salvo ed eroicizzato dalla trincea e ha dovuto riprendere in mano gli arnesi da scalpellino o falegname, la vanga e la zappa da contadino. Frustrazione poi presa a uso strumentale da una propaganda demagogica, che l’ha sfruttata, fomentata, aizzata, per i suoi fini (la ‘fake news’ della Vittoria Mutilata è solo uno degli esempi possibili).
L’importanza di leggere Vent’anni oggi sta proprio in questo: mostrarci e ricordarci – ora più che mai importante – che una società frustrata, disillusa, depressa, lasciata alla mercé di una classe politica che fa di quei sentimenti degli strumenti di sopraffazione per consolidare un potere proprio, non conduce a nulla di positivo, solo ad altra frustrazione, disillusione, depressione, che portano gli uni a combattere contro gli altri, gli uni a sferrare anche contro se stessi offensive di avvilimento.
Corrado Alvaro, autore dapprima meridionalista (nato in Calabria) e poi acuto narratore dell’Italia intera, è uno scrittore e intellettuale da riscoprire, che ha portato per decenni alto il nome della letteratura italiana – tant’è che nel ’51 ha vinto il Premio Strega a cavallo di due grandi come Pavese e Moravia. Una riscoperta resa possibile dalla ripubblicazione dei suoi romanzi nella collana tascabili Bompiani.
Vent’anni non è certo un romanzo da ombrellone, ha le sue peculiarità stilistiche e strutturali primonovecentesche che al lettore di oggi possono sembrare insolite e spiazzanti. Non è neppure un altro romanzo sulla prima guerra mondiale [2] ma un’opera il cui significato non smette di essere valido ora come allora. E dunque: riscopriamo la letteratura italiana passata, perché, molto spesso più di quella attuale, ha da raccontarci sul nostro presente.
– Giuseppe Rizzi –
——-
[1] Per approfondire è consigliato: George Mosse, Le guerre mondiali: dalla tragedia al mito dei caduti, Laterza
[2] Penso al grande La rivolta dei santi maledetti di Curzio Malaparte o anche, in maniera diversa, a La città degli amanti di Riccardo Bacchelli
Immagine in evidenza: Roberto M. Iras Baldessari – La tradotta