Leggere Malaparte, comprendere Caporetto, capire noi stessi

“E i fanti, senza un lamento, andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare” (C.M.)

Notte. Sono le prime ore del 24 ottobre del 1917. Cent’anni fa.
Sui monti intorno all’Isonzo è caduta una nebbia fitta ad avvolgere l’oscurità. Le temperature sono bassissime, la terra fradicia per le piogge dei giorni passati puzza ancora di un pessimo tanfo. Non c’è vento a soffiare e le fronde dei larici sono immobili, inghiottite dal buio e dalla nebbia. Si inciampa nelle radici e nei polloni degli alberi, si scivola sul muschio e sui declivi rocciosi che il gelo ha reso viscidi. Oscurati anche a se stessi, celati dalla notte, ci sono oltre duecentomila uomini, inermi, ad attendere la loro morte, come martiri nell’attesa di salire al patibolo.

Due spie rumene avevano avvisato il capo di stato maggiore Cadorna e gli altri alti ufficiali. I due soldati rumeni avevano detto loro che quella notte l’esercito austro-ungarico avrebbe attaccato. Tutti sapevano, ma nulla impedì anche stavolta una devastante, completa impreparazione strategica. I fanti erano allo sbando, col morale a terra e il fisico compromesso dal freddo, dalle carenze igieniche, sanitarie e alimentari. Tirati fuori dalle trincee, pronti a schierare le Fiat Villar Perosa, come venivano chiamate le mitragliatrici in uso presso il Regio Esercito, dal nome della località in era nato Agnelli. Ma era troppo buio per sapere dove puntarle. L’austriaco invece aveva già preparato l’offensiva, preso la mira.Marcia_nella_valle_dell'Isonzo

I fanti erano lì ad attendere la morte. Figli strappati al lavoro della terra, alla cura delle bestie, alle fatiche per mantenere figli, genitori e fratelli. Presi dal sud senza possibilità di opporsi, mandati come carne da macello a recuperare Trento e Trieste, posti che mai avevano sentito, che distavano anche mille chilometri dalla loro terra e per le quali meno di nulla avevano interesse, figurarsi se potevano dare la vita per esse.

Nel buio ascoltavano i loro cuori battere come colpi di mitraglia. Poi ecco i primi colpi di salva che segnavano l’inizio dell’attacco, l’inizio dell’ennesima battaglia sull’Isonzo, così devastante e terribile che avrebbe meritato un nome proprio: Battaglia di Caporetto. Iniziata alle prime ore della notte del 24 ottobre, terminata solo ventisei giorni dopo, il 19 novembre.

Quasi tredicimila i fanti italiani caduti, troppi i feriti, tantissimi i disertori che avevano deciso di disobbedire, per poi cadere vittime degli stessi moschetti italiani. Per non parlare di coloro i quali sono stati fucilati in esecuzioni punitive, illogiche, gratuite, da parte dei loro stessi comandanti.

La battaglia di Caporetto è stato il culmine di follia e tragedia della prima guerra 9272mondiale, una delle pagine più tristi della storia italiana. Si può capire davvero cosa Caporetto è stata, cosa ha rappresentato per la storia e la cultura italiana, solo leggendo un’opera magistrale: “La rivolta dei Santi Maledetti”. E quando dico che si capisce cosa Caporetto è stata, non mi riferisco alle cronache di battaglia, alle strategie belliche, alle nozioni storiche. Caporetto è stata una tragedia, anzi, non una, ma 257mila tragedie, tante quante gli uomini che l’hanno vissuta.

L’opera di Malaparte, che mescola cronaca, narrazione e riflessione, ruota intorno al dramma dei fanti, quei “Santi Maledetti” mandati a morire inutilmente, molti dei quali si fecero disertori. Il quadro che ci dipinge ha le sembianze d’una fantasmagoria infernale. Quei fanti che la storia solitamente riporta tutti identici e acefali sotto l’etichetta comune di soldati, appaiono con Malaparte uomini reali, tali al punto da rischiare di riconoscerci in qualcuno di loro.

Sono giovani ragazzi portati via con l’autorità e la forza dalla loro misera e onesta vita: chi lavorava alla zolfara, chi al mercato, chi spaccava le pietre, chi seminava il grano. Gente umile che non voleva uccidere, ma vivere; gente che mandata a difendersi a volte senza neppure saper tenere il fucile in mano. Tutti col proprio dialetto, senza una lingua comune con cui comunicare. I malati non venivano curati, si moriva in trincea di polmonite o appendicite, se lamentavi un male eri tacciato di mentire. Come statuette di piombo nelle mani di generali folli, assassini, inetti e incapaci, mandati a morire gratuitamente, senza clemenza, inutilmente.

Curzio_Malaparte_alpino
Malaparte negli Alpini

Malaparte era stato al fronte, ciò che scriveva aveva tutto cognizione di causa. La sua opera (del 1921) resterà a lungo censurata sotto il regime fascista. Sarà costretta poi a cambiare nome,in Viva Caporetto!
Un’opera miliare della letteratura italiana, attentissima nell’analisi come un saggio brillante e una feroce inchiesta; godevolissima nella lettura come un grande romanzo; preziosissima come uno scrigno che conserva una critica sempre attuale alla più atavica, profonda e inestricabile attitudine italiana.
Scritta in una lingua bellissima, epica e poetica insieme, cruda ma non crudele, umana e compassionevole, senza cenni di parossismo. Un libro che incredibilmente si trova di rado in giro, che si può leggere forse solo nelle opere scelte di Malaparte, come ad esempio nei Meridiani Mondadori.

A cent’anni dalla Battaglia di Caporetto, leggere Malaparte, leggere La rivolta dei Santi Maledetti è fondamentale, è un dovere oltre che un piacere, se non per la drammaticità del racconto certo per l’altissima qualità letteraria. Con Malaparte comprendiamo la complessità di uno dei momenti più neri della nostra storia; con Malaparte ricordiamo, ed è un obbligo. Perché dietro ogni soldato c’è un uomo, un uomo che spesso o quasi sempre non ha deciso di diventare un assassino o di morire come martire. Un uomo che, come viene riportato, aveva sul fronte un unico sogno, comune a tutti i suoi commilitoni: il sogno di avere i capelli bianchi, di diventare vecchio.
Leggere Malaparte per comprendere Caporetto, così comprendere noi stessi e combattere l’oblio.

(di Giuseppe Rizzi)

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