“Lincoln nel Bardo”, capolavoro imprescindibile e commovente

È raro che un libro possa commuovermi fino alle lacrime. Mi fanno piangere i film e le canzoni, ma con i libri è difficile. Forse perché li leggo con uno spirito più critico, oppure perché mi concentro troppo, non lo so. Ma sono stati pochi i libri che mi hanno fatta piangere, questo è il fatto. Quando ero piccola, ricordo chiaramente che piansi fino a gonfiarmi gli occhi quando lessi della morte di Silente in Harry Potter e il Principe Mezzosangue; poi ho pianto nelle pagine finali de Il Vangelo secondo Gesù Cristo di Saramago. Trilogia della città di K. mi aveva totalmente devastata, e adesso alla lista si aggiunge Lincoln nel Bardo, di George Saunders.

C’è una differenza però tra questo romanzo e gli altri che ho citato: il pianto che mi ha scatenato Lincoln nel Bardo è stato un pianto di tenerezza, compassione, piena compenetrazione: mi è parso di comprendere fino in fondo le sofferenze e le emozioni dei personaggi, come se le stessi provando anche io. Raramente ho provato una sensazione del genere. George Saunders è riuscito a raccontare una storia assurda, tragicomica, quasi incredibile, che avrebbe corso il rischio di risultare addirittura grottesca, ma l’ha fatto con un delicatezza irripetibile.

Di cosa parla questo libro? Il tutto si svolge in un’unica notte; la notte in cui il Presidente degli Stati Uniti, Abraham Lincoln, perde il suo figlio Willie, di appena undici anni. Incapace di darsi pace, il Presidente si ritrova ad affrontare un dolore più grande di lui. Anche il bambino, però, si ritrova in un limbo (il Bardo, appunto): al momento della sua morte, infatti, si ritrova in uno stato di semi-morte, incapace di proseguire oltre e trovare la sua pace eterna, incapace di tornare indietro e riabbracciare il padre (che è la cosa che desidera di più). Ci si ritrova ad assistere, così, allo strazio di un bambino morto che tenta disperatamente di farsi ascoltare dal padre, che non può sentirlo per ovvi motivi, e un padre distrutto dal dolore che spera in un improvviso risveglio del bambino: una sensazione talmente intima ed umana che fa male anche solo leggerla.

Willie si ritrova così nel cimitero, dove di notte riprendono coscienza tutte le anime che, come lui, non sono state capaci di andare oltre. In questo ambiente, veniamo a conoscenza delle povere anime tristi che popolano quel posto così tetro; ognuna di loro porta con sé una pena, nessuna di loro (o quasi) è capace di comprendere che è morta, pensano che torneranno al posto dove erano prima e che il loro sia solo un momentaneo stato di stallo e malattia. Nel libro si respira un ambiente grottesco e tragicomico, fatto di figure strane ed eccentriche; chi gira nudo per il cimitero con un membro gigantesco ed ingestibile, chi vola lanciando cappelli di ogni sorta, ci sono donne bruttissime e lerce che non sanno far altro che dire parolacce. Tutto questo serve all’autore a dare un’idea di “contrappasso” dalle tinte dantesche, una specie di marchio visibile, che ricolleghi i personaggi a ciò che sono stati in vita, ma anche alle loro sofferenze non perdonate, non espiate. Ma il romanzo è un capolavoro perché ci mostra che anche in questo c’è redenzione: il perdono arriva anche per chi non crede di avere più speranza. Un messaggio estremamente cristiano, ma portato avanti in maniera originale e, ancora una volta, commovente.

Queste anime assurde e dannate decidono quindi di aiutare il piccolo Willie a farsi sentire dal padre, poiché solo Lincoln può aiutare il piccolo a salvarsi, ad andare oltre. L’amore del padre può far trovare la pace eterna all’anima del piccolo Willie, il quale vuole solo sentire il calore del papà per potersene andare beatamente. Le anime stesse, nel tentativo di avvicinare il padre alla tomba del figlio, trarranno giovamento da quell’atto d’amore così disinteressato; per un poco, le loro pene si placheranno per permettere loro di concentrarsi ancora di più nell’aiuto che stanno dando a Willie.

Cosa è che redime, quindi? L’amore, banalmente. Anzi, no, non banalmente: meravigliosamente.

Leggendo questo libro ho visto chiaramente l’immagine di un cimitero solitario, buio, tetro, popolato solo dalle tombe e dalla figura ricurva di un padre distrutto, affranto, che sa che non potrà mai più riabbracciare suo figlio. E ho pianto. Poi, ho visto anche questo cimitero popolarsi di anime dannate ma buone, tristi ma compassionevoli, ignare ma sagge, che con il loro aiuto hanno acceso fiaccole di speranza tutto intorno a questo povero padre e alla tomba del suo amatissimo bambino. Ho potuto ammirare il miracolo di vedere, per un’ultima volta, un padre abbracciare il figlio morto e dirgli addio; ho visto un figlio trovare pace nell’amore del papà che era venuto a salutarlo. E ho pianto ancora.

Questo non è un romanzo storico, Abraham Lincoln smette di essere il Presidente degli Stati Uniti d’America: è il racconto di un uomo alto ed importante che diventa, sotto il peso degli eventi della vita, piccolo come una formica e che ha bisogno di aiuto per superare il suo dolore. È un romanzo corale di anime che altrimenti non avrebbero avuto voce; Saunders riesce a far parlare la nostra paura della morte, le nostre più tetre fantasie su di essa, ma riesce anche nell’impareggiabile impresa di far parlare la speranza, anche nelle ore più ere, nei momenti meno lucenti.

Anche la forma e lo stile sono assolutamente stravaganti, forse per qualcuno potrà risultare complesso seguire sempre il filo del discorso: è un romanzo frammentato, proprio perché corale, e governato dalle mille voci che lo popolano e gli danno vita; ma non arrendetevi perché non è sempre necessario, in questo libro in particolare, seguire ogni singolo filo logico. Questo romanzo non bada alla logica delle cose, ma è importante che vi lasciate trasportare dalle immagini e dai sentimenti che traspaiono.

Non credo di esagerare nel dire che siamo di fronte a una nuova pietra miliare della letteratura americana. Leggetelo, e questo non è un consiglio: è un imperativo.

Clelia Attanasio

 

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