Maestoso è l’abbandono, Sara Gamberini
(Hacca Edizioni, 2018)
“Maestoso l’abbandono” è, prima di tutto, una storia in divenire. Una collezione di attimi in cui a regnare è l’illusione di un lunghissimo presente, raccontato in prima persona al passato. Una storia fuori dagli schemi, insomma, così scorrevole da non sembrare neppure pianificata, a tratti.
Assomiglia a un grosso flusso di coscienza, in cui si decide di voltarsi all’indietro e di riprendere le fila di numerosi discorsi per tessere un enorme ricamo. Al suo interno, persone e luoghi ben precisi: città, librerie, madri, amiche. E, sopra tutti, il dottor Lisi e Lorenzo, due diverse incarnazioni del maschile che, accompagnate da una serie di altre apparizioni sporadiche, indirizzano la vita della protagonista ora verso un orizzonte, ora verso il divano di casa.
A proposito: lei si chiama Teresa, ma per i familiari è Maria. È cresciuta con poche regole e molti miti, emigrava di continuo verso casa della nonna, ama la madre pur senza riuscire a perdonarle la rabbia, la mancanza di costanza, le assenze. E dalla madre ha preso qualcosa, le fette buone da ingoiare, mentre le altre cerca di scioglierle nell’acido di alcune lettere che le scrive di tanto in tanto, probabilmente senza inviarle mai.
C’è in lei, insomma, un microcosmo basato su uno strano rapporto con Dio, uno strano rapporto con la psicoanalisi, uno strano rapporto con l’amore. Di questo universo interiore è un buon ascoltatore Lorenzo, che sistema i volumi sugli scaffali della libreria proprio come lei, per mestiere e per passione. Con lui può comunicare in silenzio, a distanza, o con sms ai quali lui non sempre risponde. Parlano e usano emoticon, ma prima di baciarsi indugiano a lungo e sembrano giocare a nascondino con le attenzioni che si dedicano.
Maria-Teresa racconta trama e ordito con meticolosità, in uno stato di perenne disordine apparente. Non si riesce a prevedere da che punto della sua vicenda personale inizierà ogni capitolo, in che direzione veleggerà, quanti passi farà a ritroso. Dopotutto, per la protagonista stessa non è questo l’importante. C’è una pastosa convinzione di fondo, nelle sue parole, ed è quella che nell’atto del narrare sia racchiusa la possibilità di decifrare l’invisibile, di abbracciare l’impalpabile. Di rimettere in sesto l’esistenza e regalarle il giusto ordine crono-logico.
Così, Maestoso è l’abbandono fatica a diventare un romanzo nel senso più ortodosso del termine. Si ferma un passo prima, nel regno dell’indistinto e dell’onirico, e poi con spavalderia scavalca la frontiera naturale che lo separa dalle etichette canoniche e si tuffa in una piscina trasparente, nella quale si trasforma subito in una salvezza sottile, in una grande confessione, in una sincera esperienza di condivisione dalla quale è bandita qualunque quarta parete con il pubblico.
Si tratta, dunque, di un esperimento personale che va oltre le righe, più che schierarsene al di fuori. Custodisce una scrittura matura, evocativa, intricata – e contemporaneamente consapevole di sé al punto da non smarrire mai il bandolo della matassa. Suggerisce degli spunti di riflessione, ma per lo più ne crea per sé, quasi che si trattasse di un monologo allo specchio, amplificato da un microfono nascosto.
Limitandosi a sfogliarlo lo si potrebbe allora scambiare per un azzardo, per una scommessa troppo densa e persa in partenza, e tuttavia basta leggerlo con maggiore attenzione, con più cura, per attraversarne i nodi, accompagnandolo nel suo sentiero e assaporandone le asperità come se fossero un dono raro. Di maestoso c’è quindi da aspettarsi non soltanto l’abbandono suggerito dal titolo, ma anche un’intera pratica di introspezione, di esternazione, di tentativi mirati a non lasciarsi sopraffare né dalla troppa vita né dalla sua assenza. Un unicum di suggestioni affamate, alle quali difficilmente si può restare indifferenti.
(Eva Luna Mascolino)