Fulvio Ferrari è un germanista e scandinavista attualmente in carica come docente di Filologia Germanica presso l’Università di Trento. Parallelamente all’insegnamento, esercita il mestiere di traduttore dal 1982, volgendo in italiano testi di lingua norvegese, svedese, tedesca e nederlandese. Ha tradotto numerose opere per varie case editrici: Mondadori, Lindau, ma soprattutto Iperborea. L’abbiamo contattato per chiedergli di parlarci della sua più recente uscita Iperborea, vale a dire Perché ci ostiniamo dell’autore svedese contemporaneo Fredrik Sjöberg (luglio 2018).
Perché ci ostiniamo consiste in una raccolta di nove saggi di argomento vario, tutti però legati dal gusto per l’aneddotica, le singolarità e le bizzarrie che ha lo scrittore. I titoli sono, in successione: Eat your stamps or I’ll leave you!, Bing!, Perché ci ostiniamo?, Sull’arte di scrivere saggi, Sulla tomba di Thomas de Quincey, Anna e Rutger, Sulla bellezza, Storia dell’idea di Sclerophora pallida, Papà. Ferrari ha gentilmente soddisfatto alcune nostre curiosità sull’opera, sul suo autore e sull’attività del traduttore in generale.
Professor Ferrari, lei ha curato la traduzione di Perché ci ostiniamo di Fredrik Sjöberg assieme ad Andrea Berardini. Come si svolge un lavoro di traduzione in coppia?
Dipende. In passato mi è capitato di tradurre romanzi in coppia con un altro traduttore o un’altra traduttrice. In quel caso il lavoro è molto più complesso perché bisogna assicurare scelte traduttive coerenti nell’arco di uno stesso arco narrativo, e l’intervento di un revisore esterno è sostanzialmente indispensabile. La traduzione in coppia di Perché ci ostiniamo è stata meno difficile in quanto si tratta di brevi narrazioni o saggi indipendenti l’uno dall’altro. Una volta individuato il registro, i due traduttori possono muoversi in modo piuttosto indipendente.
Quali sono le peculiarità dello stile dell’autore che emergono nella traduzione?
Il problema è se la traduzione riesce a fare emergere le peculiarità dello stile dell’autore. Per quanto riguarda Sjöberg, il tratto stilistico che rende la sua scrittura particolarmente efficace è l’ironia sottesa a tutti i suoi racconti e anche alle sue riflessioni. Perdere il tono autoironico, ignorare le mosse di presa di distanza dalle proprie affermazioni e dai propri racconti significa perdere totalmente l’arte specifica di questo autore.
Per Iperborea aveva già tradotto, dello stesso autore, L’arte di collezionare mosche (2015), Il re dell’uvetta (2016) e L’arte della fuga (2017). Sjöberg li cita di frequente nei saggi che troviamo in Perché ci ostiniamo. Quali elementi di continuità ci sono tra queste quattro opere?
Le tematiche sono ricorrenti, in particolare l’interesse per la natura, per la sua conservazione e il pericolo di cadere in un atteggiamento “feticista” che isoli la natura dal complesso dell’esperienza umana, creando una separazione netta tra spazi della vita di tutti i giorni e santuari inautenticamente “incontaminati”. E poi, naturalmente, la tecnica di continuo intreccio tra diversi ambiti di interesse: la biologia e l’arte, la storia e la letteratura, la politica e le scienze.
Ha avuto modo, in questi anni, di stringere un rapporto con Sjöberg?
Non ci siamo incontrati spesso, e siamo entrambi persone piuttosto riservate, però nelle occasioni in cui ci siamo incontrati abbiamo sempre avuto rapporti di grande cordialità e abbiamo trovato il modo di dichiararci la nostra reciproca stima.
Può farmi qualche esempio di autore al quale, nel corso della sua (pluridecennale) attività da traduttore, si è sentito particolarmente affine?
Nell’attività di traduttore si incontrano (di persona o sulla pagina) numerosi autori, con alcuni dei quali si ha anche un rapporto molto difficile. Per quanto mi riguarda ci sono due autori per cui ho avuto un vero e proprio trasporto, tanto da sentire l’attività di traduzione quasi come una missione perché le loro opere circolassero e venissero conosciute anche in Italia. Uno di questi autori – che ovviamente non ho mai incontrato – è Stig Dagerman: il suo rigore etico e la sua passione politica hanno rappresentato per me delle vere lezioni, e in fondo mi sono riconosciuto anche nella sua delusione dopo una stagione politica di grandi speranze e di grande impegno. L’altro – che invece ho avuto modo di conoscere di persona – è Göran Tunström. La lettura del suo Oratorio di Natale è stata per me una rivelazione, la scoperta di una scrittura che, con gli strumenti e la sensibilità dell’epoca contemporanea, metteva il lettore faccia a faccia con le grandi domande dell’esistenza, e senza dare risposte dogmatiche indicava una strada verso l’interiorità e, al tempo stesso, verso l’apertura all’altro.
Ho trovato questa raccolta una miscellanea che forse solo un collezionista avrebbe potuto mettere assieme. E di collezionisti si parla, in senso più e meno letterale, in Perché ci ostiniamo. Lei pensa di avere un’attitudine da collezionista in qualcosa?
Non direi. Certo, ho una tendenza maniacale ad accumulare libri che poi non so dove mettere, ma più che di collezionismo direi che si tratta di un’infantile speranza di onniscienza.
Nella raccolta emerge un particolare rapporto con la natura che è generalmente considerato un “marchio di fabbrica” dei paesi scandinavi. Sjöberg parla molto di ambiente e di ecologia. In Italia al momento non c’è, salvo eccezioni, una mentalità similmente attenta alla conservazione. Pensa che leggere letteratura nordica possa contribuire a maturarla?
Credo che l’interesse per la natura abbia determinato anche in passato il successo di molti autori scandinavi in Italia. Penso a casi come quello di Knut Hamsun, la cui descrizione della natura dell’estremo Nord della Norvegia ha fatto del romanzo Pan l’oggetto di un piccolo culto. Più difficile è capire perché questo interesse non si sia radicato in molti autori italiani. Il caso recente di Cognetti, d’altro lato, dimostra che anche gli autori italiani, quando imboccano questa strada, ottengono grandi successi.
Come colloca Sjöberg nel panorama della letteratura svedese contemporanea?
Il quadro della letteratura svedese contemporanea è molto composito. È più difficile individuare oggi tendenze o correnti di quanto non lo fosse una trentina di anni fa. La scrittura di Sjöberg mi sembra si inserisca in una tendenza internazionale a sfumare i confini tra letteratura, reportage e saggio, una tendenza che si era affacciata in Svezia già negli anni Sessanta e che ora sembra riassumere forza.
Delle lingue che traduce (svedese, norvegese, tedesco, nederlandese), ce n’è una che si “piega” più facilmente alla traduzione o questo dipende esclusivamente dall’uso che l’autore fa degli strumenti espressivi e dal genere dell’opera?
Non direi che ci siano grosse differenze, da questo punto di vista. Si tratta pur sempre di lingue germaniche, che quindi richiedono sempre una riorganizzazione della sintassi. Quello che è determinante è lo stile: una scrittura molto secca, dalla sintassi relativamente semplice è sicuramente meno difficile da tradurre di una scrittura più complessa, ricca di subordinazioni e magari di arcaismi. Ma la possibilità di deragliare è sempre in agguato. Una scrittura apparentemente semplice può nascondere elementi che sfuggono a una lettura superficiale, e se sfuggono anche al traduttore il testo ne risulta fortemente impoverito.
Un’ultima domanda a bruciapelo: dei nove testi che leggiamo in Perché ci ostiniamo, quale ha apprezzato maggiormente?
Direi Anna e Rutger, un po’ perché mi affascinano le storie di personaggi straordinari oggi dimenticati, e un po’ per l’intreccio tra “grande” e “piccola” storia.
(a cura di Alessia Angelini)
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