AA.VV., Anatomé – dissezioni narrative
(Officina Ensemble, 2018)
Quando si tratta di leggere una raccolta di racconti provenienti da penne diverse, il rischio che si corre è di ritrovarsi a leggere una serie di scene sconclusionate e poco organiche, come se qualcuno avesse creato un filmato tagliando le parti migliori di vari film. Il risultato che se ne ricaverebbe sarebbe – nonostante quelle scene siano effettivamente le migliori – quello di una lunga serie di fotografie senza senso organico. Belle, estetiche magari, ma di certo non vive.
In questa raccolta, a cura di Antonio Russo De Vivo e Andrea Zandomeneghi, il risultato è agli antipodi. Nonostante gli stili siano tra i più disparati, emerge chiaramente il corpo anatomico della raccolta. Le intenzioni dei singoli autori irrompono prepotentemente da ogni racconto, i quali non sono minimamente didascalici, ma la raccolta non viene soffocata da questo. Anzi, il corpo umano che ne esce è vivo, vivido e pulsante, proprio grazie alla capacità di ogni parte di adempiere al suo scopo. Un po’ come la metafora di Menenio Agrippa sulle membra del corpo, perdonatemi la citazione forbita: ho fatto il liceo classico, sono errori di gioventù.
Mi piacerebbe soffermarmi brevemente su alcuni dei racconti, citando i titoli e non le parti del corpo destinate ad ognuno di essi, il tutto tentando non di fare spoiler.
Anzitutto credo sia il caso di partire dall’inizio con Sacrificio di Erika Nannini. La stregoneria ha a che fare con le viscere, l’utilizzo delle parti più intime e nascoste, aggrovigliate del corpo umano, al fine di poter cambiare le sorti dei singoli. C’è qualcosa di esoterico nelle viscere e in questo racconto non emerge solo questo, ma viene sottolineata anche la stessa natura “viscerale” degli esseri umani.
Marco Rincione, L’uovo: la metafora tra la vita e la merda iniziale mi ha lasciata di stucco, ma è il ritmo incalzante e la domanda sempre più insistente su quale fine farà l’uovo, protagonista assoluto e passivo del racconto, che rende l’idea della ridondanza e della ossessività della vita, della nostra ricerca di senso e della disperazione che ne consegue, quando la domanda si esaurisce e non c’è più niente da domandarsi.
Uno dei racconti che più mi ha dato gusto leggere è sicuramente quello di Luca Mignola, L’educazione del Topo. Prima di parlarvene, una nota frivola: è la prima volta in vita che leggo il mio nome in un racconto, e devo dire che mi ha emozionata, seppur io venga nominata come vecchia scopa, ma non ci lamentiamo. Non so perché, però questo racconto me lo sono immaginato con le atmosfere fumose e post-apocalittiche di Brazil, uno dei miei film preferiti. Il fantastico impera in ogni frase, in un calderone di riferimenti al mondo classico, a quello contemporaneo, post-apocalittico e a quello sudamericano. Un racconto che non lascia scampo a nessuno, che accoglie tutti i riferimenti culturali di cui è capace, e li fa crescere nel suo utero, creando un racconto surreale e favoloso.
Alfredo Zucchi, invece, scrive un racconto intitolato Lo spettacolo. La trama è quella di un noir, ma ho percepito una strana tenerezza attraverso gli occhi del protagonista Federico, una tenerezza inaspettata rispetto alla crudezza e al taglio asettico del racconto. Anche in mezzo ad orge, organi sessuali e bestemmie, ho sentito una specie di empatia proveniente dalla persona del protagonista; la penna che lo ha disegnato è stata delicata e triste contemporaneamente, malinconica nel tracciare l’esperienza di un uomo troppo in gamba per fare il poliziotto. Infine, ho a dir poco apprezzato la citazione a Stella distante di Bolaño, uno dei libri che preferisco al momento.
Infine, vorrei parlare un attimo del racconto di Ivana Margarese, Capsule: il racconto che senza dubbio ha più toccato le corde della mia parte emotiva, sia per il modo in cui è scritto sia perché io in primis sono una persona estremamente sensibile. Le attese e i desideri inespressi, spesso non contraccambiati da chi ci fa credere il contrario, logorano la nostra visione del tempo e della vita. La straordinaria capacità di legarsi alle persone sbagliate è spesso il sintomo di una incapacità di guardarsi dentro, di stare da soli con noi stessi, e questo genera una distorsione nella nostra vita, una specie di ossimoro per il quale ci convinciamo di dover meritare degli affetti sfuggenti, perché noi stessi ci sfuggiamo. Così il tempo diviene un’attesa, un desiderio di compagnia e comprensione che non arriva mai. E, come in Waiting for Godot, ci si ripete che arriveranno, torneranno, resteranno i nostri affetti, perché in fondo anche loro ci desiderano, ci vogliono, ci amano.
Questa raccolta di racconti disegna perfettamente l’idea di una metafisica dell’anatomia umana, in un collage in cui ogni membro, ogni parte, ogni arto ha la sua sensibilità e la sua storia, così come – in un solo essere umano – non vi è mai una unità statica, ma un prisma di esperienze.
Clelia Attanasio