Gli Undici, Pierre Michon
(Adelphi, 2018 – trad. G. Girimonti Greco)
Gli Undici di Pierre Michon, uscito in Francia nel 2009 e vincitore del Grand prix du roman de l’Académie française nello stesso anno, è un esperimento narrativo probabilmente senza eguali. Una storia nella storia, che parla della Storia. Ovvero: la vicenda di un pittore, raccontata a propria volta da un uomo di un XXI secolo alternativo al nostro, incentrata su un episodio risalente a un periodo cruciale non solo per le sorti della Francia moderna, ma anche per quelle del resto del mondo.
Il pittore in questione è un certo François-Élie Corentin, allievo di Tiepolo e ora in servizio presso l’atelier di David, del quale fin da subito conosciamo genitori e nonni in una proiezione storico-fittizia convincente e brillante. La sua vita è ricostruita con dovizia di particolari e sagge pennellate narrative qua e là, in un continuo alternarsi di prospettive e di anni che ci tiene però bene ancorati all’epoca del post-rivoluzione, negli anni Novanta del XVIII secolo.
Più nello specifico, il focus dell’azione si concentra nel biennio 1793-94, quando gli ideali e le aspettative del popolo vengono incarnati – e subito rovesciati – dal Comitato di salute pubblica, composto da undici membri. Il loro destino, come sappiamo, finisce presto nel sangue, eppure volere degli undici è di essere ritratti in un grande quadro durante una sorta di “cena rivoluzionaria”, che possa attestare, nonché soprattutto legittimare, il potere di cui si sono auto-investiti agli occhi della nazione.
Corentin viene, allora, rapito da un gruppo di sanculotti in una notte di neve «del mese di nevoso dell’anno II», ossia probabilmente il 5 gennaio del 1794, e condotto nella chiesa di Saint-Nicolas-des-Champs, nella cui sagrestia verrà incaricato ufficialmente di questa sacra e ineluttabile missione artistico-politica, in cambio di una lauta ricompensa ma con l’intimazione di agire in tempi rapidissimi.
Ad accompagnarci alla scoperta dell’articolata genesi del quadro è un narratore appassionato, dalla scrittura densa di simboli e significati traslati, che fa un largo uso di aggettivazioni e che sa come arricchire continuamente le vicende con risvolti misteriosi, informazioni affascinanti e sottili digressioni. A rendere il romanzo un’eccezionale prova di creatività e di spessore, tuttavia, non sono solo gli elementi appena citati, ma anche e in particolare la capacità di descrivere, partendo da una biografia inesistente, una dimensione storica e umana di sconcertante realismo.
Se da un lato, infatti, Gli undici non è mai stato dipinto da nessun Corentin, dall’altro lato le miserie, gli intrighi di potere e gli atteggiamenti di cui si condisce l’opera appartengono in tutto e per tutto alla storia e alla Storia, cioè tanto alla natura dei singoli individui quanto all’ultimo decennio del 1700 francese nel suo insieme, con una precisione peraltro chirurgicamente esatta. I membri del Comitato, così, rappresentano sia nel libro sia nell’interpretazione che ne emerge «la Storia in atto», all’indomani della decapitazione del re e a un passo dall’ennesimo colpo di Stato, feroci ed eretti nella loro duplice funzione di assassini e di assassinati.
Alla luce dell’allegoria di cui è intriso e grazie alla traduzione italiana di Giuseppe Girimonti Greco – impeccabile e vibrante, evocativa e suadente –, l’ultimo romanzo di Michon si configura dunque come un breve e intensissimo viaggio alla scoperta di ciò che siamo stati, di ciò che avremmo potuto essere, di ciò che forse siamo sempre, indistintamente, tutti. Il tutto in una prosa che non supera le 150 pagine e che per fortuna, vista la sua consistenza, non arriva mai ad annoiare, a stancare o a nauseare, ma solo ad ammaliare.
Eva Luna Mascolino