Elmet, Fiona Mozley
(Fazi, 2018 – trad. Silvia Castoldi)
Quello descritto in Elmet è un mondo violento. Violento e ossimorico. Un mondo dove la brutalità non esclude l’amore e viceversa. Il titolo è in sé significante: Elmet è stato il nome dell’ultimo regno celtico rimasto indipendente fino al Medioevo in Inghilterra, per la precisione nello Yorkshire. La giovane autrice, Fiona Mozley, al suo debutto (un debutto stellato: il romanzo è stato finalista al Man Booker Prize 2017), è una dottoranda in Storia Medievale, originaria dei luoghi in cui ambienta la sua storia: la sua evidente conoscenza della materia che plasma dà un ulteriore spessore agli eventi, consentendo fruizioni leggermente diverse ma ugualmente godibili ai lettori che conoscano gli stereotipi di cui le fonti classiche hanno sempre rivestito i Celti* e agli altri.
Protagonista è una famiglia atipica: padre, figlia, figlio. Della madre sappiamo molto poco e in ogni caso, per lo più, non è che una comparsa in un universo che sa fare a meno di lei. Non è la mera assenza di una figura materna a rendere atipica questa famiglia: il padre è un uomo massiccio e inquietante, tanto capace di uccidere quanto premuroso e attento ai suoi due figli, ossessionato dalla loro sicurezza, dal dare loro un rifugio dove stare bene. Per loro erige una casa dalle fondamenta al tetto, nel mezzo di un bosco. Per loro farebbe di tutto. Essendo abituato a contare sulle proprie notevoli stazza e forza, non ha la minima idea di come possano sopravvivere da soli una ragazza e un ragazzino mingherlino.
La voce narrante è quella del ragazzino, Daniel. Il fratello minore. Attraverso i suoi occhi conosciamo un mondo selvaggio, rude, eppure, come annunciato dalle prime righe di questo articolo, ossimorico. Solitamente si tende a non associare brutalità e infanzia, ma nella realtà questo binomio esiste. E la Mozley lo dipinge alternando sapientemente pennellate viscose, cupe, sferzate di fango e sangue a toni sorprendentemente chiari, caldi, tratteggi morbidi, che si rivelano nella cura di preparare degli addobbi di Natale con quel poco che si ha, o nell’accoglienza delle lenzuola e di un letto in un cottage sorto quasi dal nulla. A volte queste coesistenze spiazzano il lettore, lo colpiscono. Perché quel senso di casa che nasce dove non si penserebbe possibile diventa più forte dello squallore, e la generale autosufficienza del piccolo nucleo familiare sembra più forte di qualsiasi altra cosa, sufficiente a garantire una vita insolita, ma dignitosa.
«Il nostro mondo si basava sulla forza fisica, ripeteva sempre Papà».
Un mondo violento, sregolato, dove dei bambini non vanno a scuola, possono fumare e bere sidro a volontà, andare a letto quando vogliono, andare a zonzo liberi per i boschi, e i problemi si risolvono alla vecchia maniera: nel corpo a corpo, senza mettere in mezzo la polizia, perché la polizia, la Legge, qui non contano, anzi, creano solo grane. Un mondo che mette al centro un ritorno alla natura: e infatti i tre conoscono i boschi in cui vivono meglio di chiunque altro, ne distinguono gli alberi, le creature, i rumori. Un mondo un po’ brigantesco, che resta protetto finché isolato, e finché isolato può arrivare quasi a scordarsi della modernità, della tecnologia. Un mondo in cui si va a caccia con arco e frecce, e i combattimenti seguono certe regole d’onore. I problemi cominciano nel momento in cui l’isolamento viene violato.
Elmet non è privo di riflessioni su temi come il femminismo, la giustizia sociale, la proprietà privata – tutti, s’intende, ben orchestrati nella narrazione e non semplicemente incastrati a mo’ di excursus nel bel mezzo della stessa. La Mozley non si esime dal trattare alcuni temi un po’ scomodi, a volte tabuizzati, e per certi versi il suo romanzo mette in atto una forma di catarsi. Nonostante il tono e lo stile siano generalmente buoni, e in alcuni casi tocchino un lirismo talvolta assai calzante, si registrano a volte delle ingenuità, o dei fili narrativi lasciati un po’ cadere lungo la via. Ad ogni modo, è innegabile che come debutto si tratti di un testo notevole, in alcuni casi sorprendentemente potente.
«Quando abitavamo lungo la costa, nonna Morley ci aveva portato a vedere un vecchio monumento ai caduti di guerra. Aveva la forma di una croce di pietra anglosassone, con i nomi incisi sui quattro bracci in ordine di gerarchia militare. Ogni volta che vedevamo il monumento lei ci spiegava che milioni di uomini erano morti ballando alla vecchia maniera. Non avevo capito. Per anni mi ero chiesto cosa significassero quelle parole e solo di tanto in tanto riuscivo a collegarle a un nuovo, piccolo frammento di conoscenza della natura umana e della storia del mondo. La schiavitù della performance e i valori antiquati delle nazioni. Uomini che continuano a recitare invariabilmente le stesse, identiche scene e che cercano di porre rimedio agli strafalcioni e di eliminare tutti gli errori nella trama e nelle descrizioni. Uomini che lottano per tornare al punto di partenza. Ascoltai solo in parte i piani formulati da mio padre e dai suoi nuovi amici dentro quel salottino. Non riuscivo a sfuggire alla sensazione che anche loro stessero ballando alla vecchia maniera e si appellassero a una moralità che non era mai veramente esistita dopo l’epoca in cui erano state piantate quelle alte croci di pietra, e perfino allora esisteva solo nei sogni, nelle fiabe e nelle saghe. Solo allora, nella moralità della poesia.»
Alessia Angelini
* e i Germani: spesso in passato tra i due popoli non c’è stata una chiara distinzione.
Visto così, sembra quasi una riedizione realistica di quel sottobosco da cui sono nate tante fiabe, in origine così truculente, ma poi “ripulite” dalla morale otto-novecentesca…
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In realtà non è particolarmente “ripulito”… ma se pensiamo all’origine truce, ad esempio, delle fiabe dei fratelli Grimm (area germanica), sì, si potrebbero ritrovare diverse assonanze 😉
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