L’implicita richiesta di Emanuela Cocco al lettore in “Tu che eri ogni ragazza”

Tu che eri ogni ragazza, Emanuela Cocco
(Wojtek Edizioni, 2018)

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Vi è una distanza incolmabile tra noi e il fuori, tra le cose che sono nostre – come il dolore, l’amore, la rabbia, la pietà, le scelte – e le cose che appartengono al mondo esteriore.
A volte capita di guardare al di là e di non sentirsi parte di nessun luogo: un esterno sembra essere inconcepibile.
Altre volte  – anzi la maggior parte del tempo – siamo invece immersi nell’esterno e lo abitiamo senza pensarci. Il problema, forse, comincia quando si instaura il pensiero sulla soglia: su cosa sia il fuori e cosa sia il dentro, su cosa contengano questi due mondi che a volte si incontrano e a volte, invece, lottano.

Tu che eri ogni ragazza, in un mix di stili che vanno dal monologo interiore al dialogo teatrale, affronta proprio la tematica della soglia, dello scarto tra noi e il resto che appare incolmabile e inesistente al contempo. I tre punti cardinali del romanzo – un padre che ha perduto la figlia, un’educatrice sociale e Jungla, ragazza problematica di periferia – sono le tre esternazioni possibili di questo scarto. Ognuno di loro si affaccia alla soglia e scopre, in qualche modo, che essa non esiste: il resto del mondo è sempre resto di niente, perché – nonostante ci si affanni a credere di esser distanti dal mondo – siamo sempre immersi nel resto, ne facciamo parte.

Il padre che ha perduto la figlia diviene il simbolo del senso di colpa per non aver protetto a dovere la sua bambina: si trasforma in Gesù, un benefattore che dona spiccioli ai mendicanti in una tavola calda di fronte la stazione di Tiburtina. Dona, continua a dare soldi che non mancano mai, eppure a lui servirebbe scegliere un poveraccio eletto, un disperato che si lasci guidare da lui verso la salvezza, come un moderno Lazzaro. Eppure, così come era stato impossibile proteggere la figlia da un evento incontrollabile, neanche i mendicanti vogliono lasciarsi salvare da questo Padre-Gesù-Inetto.

Nella pretesa di scegliere qualcuno, questo padre mostra la propria vergogna, la proiezione psicologica che si instaura nella sua mente: ‘se scelgo qualcuno, avrò salvato la mia bambina, che è ogni ragazza che muore, che è ogni disperato’. La figlia è dunque il simbolo della soglia tra il dentro e il fuori: è un singolo individuo, ma al contempo anche la rappresentazione di tutte le ragazze come lei. Così, il mendicante prescelto potrebbe diventare ogni mendicante: salvarne uno per salvarli tutti. Questo Gesù disperato, seppur nella sua goffaggine, è il simbolo nel romanzo di chi accoglie il dolore della soglia e cerca di valicare il confine, e accoglie l’esterno dentro di sé. Anzi, lo cerca.

Dall’altro lato della soglia, troviamo l’educatrice sociale, che si porta agli antipodi del Padre-Gesù. Questa donna ha a che fare col dolore e la miseria tutti i giorni, pur senza esserne veramente partecipe: aiuta, cerca il modo di avvicinarsi sempre di più alla disperazione che la circonda, ma non riesce mai davvero ad instaurare un rapporto empatico con essa. Questo accade per una sorta di meccanismo di anestesia: quando si ha a che fare col dolore e la morte e la violenza, ma senza esserne i veri protagonisti, si finisce per abituarsi al grottesco.

Duca, questo il nome maschile dell’educatrice, finisce per assuefarsi involontariamente alla soglia del dolore, creandosi una sorta di posizione di comodo: da spettatrice passiva, che in fondo sta bene così, che dice a sé stessa di volersi muovere verso l’altro ma, in realtà, teme di farlo. Lo dimostra il suo fugace incontro con Jungla – altro punto cardinale del romanzo – in un negozio: Duca la vede di sfuggita e la riconosce. Pensa di avvicinarla, ma lascia che si allontani e scompaia tra il resto della folla. In questo modo, la passività diventa una scusa e il resto del mondo lo scudo protettivo col quale Duca può proteggersi dall’agire, dal provare vera empatia.

Jungla, d’altro canto, vorrebbe disperatamente che qualcuno valicasse quel muro di gomma fatto di silenzi e disperazione. Jungla non sa parlare delle sue emozioni, ma si percepisce dalle sue azioni che aspira a un salvatore che possa trarla in salvo da sé stessa. Agisce ubbidendo a chiunque le dia una minima dose di attenzioni, non ragiona sulle conseguenze e ogni incontro è sempre carico di speranza. Jungla legge negli sguardi altrui, anche quelli indifferenti e carichi di antipatia, un segnale per un possibile rapporto emotivo. Un rapporto che non sembra arrivare mai. Jungla diventa così il simbolo di chi è parte del resto del mondo, emarginata in una società che l’ha lasciata in mezzo a una folla di volti vuoti, e vorrebbe entrare dentro qualcuno, così da capire anche sé stessa.

Emanuela Cocco, in questo romanzo, utilizza tematiche pesanti e complesse ma lo fa con semplicità e prendendo le questioni di petto. Il suo talento drammaturgico è evidente in ogni tipologia narratologica utilizzata: il monologo si alterna col racconto e viene contornato da un dialogo tra A e B, spettatori esterni (ancora una volta) della storia raccontata. A e B costruiscono la storia che Emanuela Cocco racconta e la modificano, la commentano in modo lucido e analitico, magari troppo. Forse A e B sono rappresentazione universale del lettore, ma anche di chi guarda una tragedia e la universalizza, lasciando alle spalle la pietà.

In questo continuo scarto tra il particolare e l’universale, tra il dolore personale e il dolore in sé, Emanuela Cocco parla di violenza, dolore e pietà senza mai menzionarle in prima persona, ma lasciando entrare questi sentimenti nel cuore del lettore, chiamati – per una volta – a non anatomizzare la trama come dei qualsiasi A e B. In questo romanzo, il lettore riceve l’implicita richiesta di comprendere, che è la base essenziale dell’empatia, quindi dell’amore vero.

Clelia Attanasio


Immagine in evidenza: Ferro 3 – La casa vuota, di Kim Ki-duk (2004)

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