L’abito come habitus e la fluidità di genere in “Orlando”, di Virginia Woolf

«Moda: Io sono la Moda, tua sorella.
Morte: Mia sorella?
Moda: Sì, non ti ricordi che tutte e due siamo nate dalla Caducità?»
(Dialogo della Morte e della Moda, in Operette Morali, 1827, Giacomo Leopardi)

Virginia Woolf ha sempre intrattenuto un rapporto molto ambiguo con Orlando: nonostante lo considerasse un divertissement scritto in regime di spensieratezza vacanziera (lo definiva infatti il frutto di una writer’s holiday), era un romanzo a cui teneva molto, sia perché lo dedicò a Vita Sackville-West – sua cara amica e amante – sia perché fu il primo testo che il pubblico inglese accolse con vivo calore. A distanza di quasi un secolo, Orlando continua a fornire interessanti spunti di riflessione, più che mai attuali.

Pubblicato nel 1928, dopo i due colossi che più spiccano all’interno della produzione matura di Virginia Woolf – Mrs Dalloway (1925) e To the Lighthouse (1927) – Orlando è la biografia parodiata, sensazionalistica di Orlando, gentleman inglese che vive a cavallo di ben quattro secoli: dall’adolescenza spesa presso la seicentesca corte di Elisabetta I fino all’11 ottobre 1928, giorno in cui il lettore la lascerà ancora in vita, più o meno quarantenne. Scrivo “la lascerà” perché l’esistenza di Orlando è sì longeva, ma anche proteiforme: sarà durante la metà del Settecento che Orlando, in quel momento ambasciatore inglese in Turchia, cadrà in un sonno profondissimo per poi risvegliarsi, una settimana dopo, donna.

Con questo romanzo gli obiettivi di Virginia Woolf sono molteplici; primo tra tutti, quello di attivare un’analisi critica sulla biografia (ricordiamo che il sottotitolo di Orlando, ormai raramente riportato in copertina, è A biography), genere letterario che non poteva più prescindere dagli sconvolgimenti avvenuti in campo stilistico-narrativo col modernismo: una distanza dalla scuola tradizionale ottocentesca – di cui un esponente era stato proprio il padre della Woolf – doveva necessariamente essere presa per rivitalizzare il genere e reinvestirlo di nuova ragion d’essere.

Per fare ciò, in Orlando Virginia Woolf costruisce un’intelaiatura metaletteraria composta da numerosi riferimenti a un fantomatico biografo («Felice la madre che portò in seno un essere tale; e più felice ancora il biografo che ne tramanderà la vita!», pag. 6) necessari per riflettere non solo sulla natura della biografia, ma anche, trovandosi in un contesto di fiction, sull’inedita fisionomia che avrebbe dovuto assumere il personaggio letterario modernista, ormai libero dalle logiche restrittive della narrativa ottocentesca, ma ancora privo di una forma definitiva.

Virginia Woolf nel 1927

Nelle sue esplorazioni e sperimentazioni narrative e saggistiche, Virginia Woolf sistematizza lo strumentario formale modernista, si libera dell’ingombrante tradizione letteraria vittoriana, e trasforma la figura femminile, finora relegata nell’ombra, in materia narrativa pronta per essere plasmata, indagata – descritta; eppure, nonostante il già gravoso compito, l’autrice inglese riesce ad andare oltre: un altro obiettivo raggiunto con Orlando è quello di ragionare sulla natura performativa dell’identità di genere, e sul ruolo soverchiante di una moda atta a definire con nettezza i ruoli sociali, maschili e femminili – cosa che capita tutt’oggi, e che aveva capito molto bene già il Leopardi delle Operette Morali.

L’identità di genere è performativa (dall’inglese performance) perché l’individuo, uomo o donna che sia, nella sua quotidianità mette in atto una serie di comportamenti sociali talmente tante volte reiterati nel tempo da averli infine introiettati inconsciamente, percependoli quindi come naturali. Una volta storicizzate, queste norme vanno a comporre un costrutto di abitudini indistruttibile – per dirla con il sociologo Pierre Bourdieu, un habitus* – di cui l’abito, inteso come generico capo di vestiario, è il riflesso materico e visibile. L’identità di genere è determinata a partire dall’habitus costituitosi nel tempo, ed è con la continua reiterazione dell’habitus che l’identità di genere viene performata. In questo deflagrante circolo vizioso difficile da rompere, è il corpo che ne fa le spese, il corpo fisico vestito, ora più libero di muoversi – quello abbigliato in panni maschili – ora più limitato nell’agire – quello costretto in vesti femminili.

In Orlando tutto ciò viene rappresentato in un momento storico ben preciso: l’Ottocento. Infatti, è durante la Victorian Age che la personalità di Orlando, fino a quel momento libera di esprimersi, si sente ingabbiata per effetto di un indumento femminile che la moda del tempo la obbliga a indossare, la crinolina: «Il peso della crinolina che remissivamente aveva adottata l’attirava a terra. Mai aveva indossato un abito tanto pesante, tanto cupo, che l’avesse impacciata a tal segno. Ora sì che aveva finito di correre in giardino coi suoi cani, o di salir leggera l’erta della collina, per andarsi a gettare sotto la quercia.» (pag. 173-174).

La crinolina è simbolo dell’assoggettamento e castrazione a cui Orlando giocoforza viene sottoposta a causa di ciò che la società da lei si aspetta, di quell’habitus sociale ottocentesco che, attraverso sontuosi ma opprimenti indumenti femminili, la vuole annichilita, alla ricerca di sostegno e appoggio. Non è un caso che solo in questo momento di profonda destabilizzazione emotiva sorga in Orlando l’urgente bisogno di procurarsi un marito: la libertà espressiva e sessuale esperita in Oriente è ormai lontana; in Inghilterra il vittorianesimo impone rigidi schemi comportamentali, e prender marito per Orlando sarebbe l’unico modo per svicolare tra le stringenti maglie di uno «spirito del tempo» che attanaglia, nonostante questo sia un rimedio solo in apparenza.

Ma in Orlando Virgina Woolf mostra anche che si possono smascherare i modelli ‘naturali’ sessuali, e lo fa presentando il loro contrario: la fluidità di genere. Il Bloomsbury Group (di cui Virginia Woolf faceva parte) sapeva bene che il modo migliore per rompere gli schemi era trasgredirli con coscienza, e le donne del gruppo – tutte molto interessate a questioni di moda e design (scrivevano anche su riviste specializzate) – promuovevano stili di vita liberali, in netto contrasto con l’idea ontologica di un’identità di genere univoca, essenziale. In seno a questo, il personaggio di Orlando rappresenta la fluidità: il suo genere sessuale non è fisso, ma passa dal maschile al femminile; la sua identità di genere non è unica, ma si compone di elementi appartenenti a entrambi i sessi.

Durante il suo soggiorno in Oriente, Orlando diventa donna, ma veste spesso abiti maschili: la sua androginia gli permette di fare leva sulla teatralità che si cela dietro il concetto di performance di genere, parodiandolo. In questo caso, l’abito come habitus assume un nuovo significato, opposto a quello visto con la crinolina – il vestito non connota il ruolo sociale e sessuale naturalmente assegnato dalla norma, ma si prende gioco sia del ruolo che della norma. Nella nostra contemporaneità c’è una specifica controcultura che in modo molto efficace si diverte a smontare l’idea classica di identità di genere proprio attraverso il travestimento: il mondo drag.

La drag queen Sasha Velour

I drag giocano col corpo fisico vestito, presentando un doppia illusione tra esteriorità e interiorità: il corpo vestito è femminile, mentre al di sotto quello fisico è maschile; allo stesso tempo, se il corpo fisico è maschile, l’essenza interiore del drag è femminile. La performance del drag parodia la performance naturale dell’identità di genere, rivelando la struttura imitativa del genere sessuale stesso e, di conseguenza, la sua natura performativa – ossia di habitus reiterato nel tempo, inconsciamente assimilato.

Passare da uomo a donna e viceversa per i drag è una prassi consueta, e non stupisce il fatto che sia in seno al mondo LGBT e al movimento queer che si stanno piano piano sistematizzando tipi di identità che con la fluidità di genere hanno molto a che fare, come quella transessuale, transgender (tra i quali i pangender, genderfluid, non binari), intersessuale – tenendo sempre a mente che identità di genere e orientamento sessuale non sono la stessa cosa. Certamente, se Virginia Woolf vivesse oggi sarebbe davvero entusiasta di tutta questa benefica confusione di generi, e Orlando, come caro inno alla diversità, tuttora lo testimonia.

Angela Marino

 


*per approfondire il concetto di habitus, altresì molto complesso, si rimanda alla lettura di Il senso pratico, Pierre Bourdieu, Armando Editore, 2003.

Testi usati:
– Orlando, Virginia Woolf, (trad. Alessandro Scalero) Garzanti (1981).
Gender Trouble, Judith Butler, Routledge (1999).

4 Comments

  1. A venti pagine dalla fine di “Orlando”, ho sentito la necessità di confrontarmi con una lettrice empatica: ho trovato questo articolo ben scritto e molto interessante. Complimenti!

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