La notte della felicità, di Tabish Khair
(Tunué, 2020 – trad. A. Gasparini)
Anil Mehotra è un giovane imprenditore indiano di successo e non ha tempo da perdere con le cose irrazionali, come la felicità e la religione. Induista solo formalmente, liberale e di larghe vedute, tollera i musulmani ma diffida anche del loro potenziale integralismo: strano, quindi, che ne abbia assunto uno e ne abbia fatto il suo fidato braccio destro.
Ma Ahmed è mite, discreto ed equilibrato e sembrerebbe anche poco praticante: l’unica festività musulmana per cui ogni anno chiede un giorno di ferie è Shab-e-baraat, la notte della felicità. In questa occasione sua moglie Roshni prepara l’halwa e i due la mangiano insieme, pregando per le anime dei defunti.
Un giorno, proprio la sera della festività, mentre imperversa un violento acquazzone, Anil si offre di accompagnare a casa Ahmed e viene invitato ad assaggiare l’halwa di Roshni. Una volta entrato nell’appartamento, però, la vita del protagonista cambia per sempre, incrinata da un dettaglio disturbante che mette in dubbio tutto ciò che credeva di sapere sul proprio dipendente.
Comincia così La notte della felicità, il romanzo di Tabish Khair da qualche giorno in libreria per Tunué nella traduzione di Adalinda Gasparini. L’autore, nato in India ma residente in Danimarca, è una voce autorevole della letteratura indiana contemporanea; nella sua produzione si contano, oltre che romanzi e racconti, inchieste giornalistiche e studi accademici.
Il calibro dello scrittore è reso evidente dal modo in cui un romanzo di appena centoventi pagine riesce a prestarsi a una moltitudine di livelli di lettura. La notte della felicità potrebbe infatti essere definito una raffinata ghost story, ma ha anche l’atmosfera del thriller e la complessità del romanzo psicologico e fornisce un quadro impietoso e preciso dei conflitti tra induisti e musulmani nella storia recente.
Sopratutto, è una storia potente sull’impossibilità di conoscere davvero l’altro e, quindi, sé stessi. Anil descrive Ahmed come una persona metodica, solitaria e modesta, quasi noiosa: di certo da lui non si sarebbe aspettato nessuna sorpresa. Dopo aver passato la sera di Shab-e-baraat a casa dell’impiegato musulmano, tuttavia, il datore di lavoro sente l’esigenza di informarsi sulla vita del suo dipendente e scopre che Ahmed ha avuto un’esistenza molto più movimentata del previsto.
Lo scontro con una realtà inaspettata arriva perché, tutto sommato, è impossibile conoscere davvero l’altro o perché l’incontro con chi è diverso da noi avviene solo se siamo disposti ad accettare la complessità degli esseri umani, e poche volte lo siamo realmente? Nel corso del romanzo Anil è forzato ad abbandonare la gabbia di razionale superficialità in cui ha rinchiuso la sua intera vita, sua moglie e persino le sue figlie, e si ritrova a riflettere su concetti astratti, come ad esempio la felicità.
Nell’atto di accettare le sfaccettature e le ombre di Ahmed, il protagonista-narratore deve anche fare i conti con le ombre che appartengono a lui e combattere la necessità codarda di vivere un’esistenza ordinata e insipida. Anil rimane sul crinale fra i due mondi, fino quasi a trasformarsi in un narratore inaffidabile.
La religione è un elemento importante della narrazione non solo per il conflitto tra Islam e Induismo, che emerge più dal punto di vista storico e sociale che spirituale, ma per la contrapposizione tra il pragmatismo di Anil, che non crede in nulla che non sia tangibile, e la fede sincera e appassionata, quasi svincolata dal credo in sé, che contraddistingue Ahmed.
Ho detto che La notte della felicità potrebbe essere classificato come una ghost story, e infatti fin dalle prime pagine si percepisce un’atmosfera tesa nell’attesa di qualcosa, al punto che la lettura procede rapida per l’impazienza di scoprire di cosa si tratta. Il contenuto, però, non asseconda la morbosità del lettore e man mano che la suggestione aumenta diventa anche evidente che gli unici fantasmi che rischiamo di incontrare continuando a leggere siamo noi stessi. Il romanzo di Khair va quindi letto e assaporato, come un buon piatto di halwa, se non si ha paura di guardarsi dritto in faccia.
Loreta Minutilli
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